Non ho mai giocato a tennis, no. Da ragazzina non ho mai voluto, ho fatto in tutto quattro lezioni in montagna, ai campi di Clusone; poi più niente. Mi vergognavo. Il mio corpo era troppo esposto: esposte le braccia e il petto stretto nella maglietta aderente; esposte la gambe. Esposti i miei movimenti scoordinati e una certa fiacchezza nelle braccia. Tennis, archiviato. No, non mi piace, fa male ai crociati, sviluppa solo una parte del corpo, è noioso: ho accampato scuse per anni. Poi è successo qualcosa. Il fisico nel tempo è diventato più forte, più compatto, perché più forti e più compatti sono diventati la testa e lo spirito. Quando vivevo a Roma mi sono svegliata più di una volta in affanno: stavo giocando a tennis contro un avversario non identificato. Nel sogno la pallina colpita dal mio diritto formidabile era solo una scia fluorescente. Ed eccoci qua, sono passati tre anni da quando sognavo Wimbledon – sognavo un campo d’erba soffice; non il Nobel per la letteratura, né lo Strega o il Campiello, ma questa cosa di far esplodere colpi verso l’ignoto, di sfidare il nulla senza respiro.
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