Il Figlio
La nostra nostalgia
I suoi figli qui con me, i miei figli là, senza di me. Storia di chi non torna a casa, e di un desiderio
"Tutte le mattine dico ai bambini: ce l’avete la mascherina? Poi li accompagno a scuola. E penso ai miei figli”. Anastasia Costin ha 43 anni, i capelli castani e le unghie laccate di rosa. Da un anno non torna a casa dai suoi bambini, Caterina e Aalim, in Moldavia. “L’ultima volta che ci siamo visti era l’autunno scorso. Da allora soltanto telefonate. Non riesco a fare le videochiamate perché mi emoziono troppo, appena li vedo mi viene da piangere e allora preferisco sentire soltanto la voce. Loro mi parlano di quello che fanno, io cerco di raccontargli di me. Vivono con mia madre da quando sono partita”.
Anastasia è in Italia da cinque anni. Voleva tornare a casa a Natale del 2019 ma è stata male. “Mi hanno operato d’urgenza e non sono potuta andare. A gennaio volevo partire, ma non ho potuto. Io faccio la tata qui in Italia, ho i miei due bambini da guardare. La loro mamma aveva finito le vacanze di Natale, non aveva più ferie, doveva per forza tornare a lavorare e chi si occupava di loro a quel punto? Chi li avrebbe portati a scuola? Mi ha pregato di aspettare. Ho pensato: andrò a Pasqua, e invece poi c’è stato il lockdown. E sono rimasta bloccata qui”. Anastasia sospira, assaggia appena il cappuccino che è ormai freddo sul tavolo, guarda il cielo bianco di Milano, che è quasi lo stesso cielo bianco di Chisinau. Certe cose sono uguali, altre no. “Si dice dor dalle mie parti, ma non trovo una traduzione in italiano. Significa nostalgia, ma anche desiderio di un sentimento che si è provato in passato, aspirazione, vuoto, malinconia, assenza, come nei versi del poeta Mohai Eminescu, Mai am un singur dor. E’ una poesia che tutti conosciamo e un sentimento che tutte noi proviamo, tutte noi donne moldave in Italia. Non esiste una parola uguale qui, non esiste proprio”.
Certe cose sono uguali, altre non hanno un corrispondente. I figli di Anastasia hanno quasi la stessa età dei due bambini che lei accudisce in Italia, 10 e 7 anni. “Assurdo, no? Sono i miei figli italiani, dico io. Li porto in piscina, a fare sport, faccio le merende. Mi sono affezionata, tanto”. Certi figli sono uguali agli altri. Ma mentre Anastasia si assicura che i bambini che accudisce usino le mascherine, si disinfettino le mani, siano al sicuro, non è certa che lo stesso accada ai suoi, di figli. “In Moldavia non ci sono mascherine, gli ospedali non sono attrezzati, ci sono pochi medici, chi ha potuto è andato via. Io dico ai miei bambini qui di stare attenti, ma non so se i miei figli fanno altrettanto”. Anastasia è arrivata in Italia da clandestina. Cinque anni fa ha pagato duemila euro a un trafficante che l’ha messa su un bus assieme a altre tre donne, ha attraversato in autobus l’Ucraina, la Slovacchia, la Repubblica Ceca. Dalla Repubblica Ceca è andata in Germania a piedi, sotto la pioggia, di notte. Ha attraversato boschi, cittadine, ha valicato il confine. E’ stata arrestata. “Ricordo l’umiliazione delle foto segnaletiche. Ci hanno riportato in Repubblica Ceca e ci hanno detto che dovevamo tornare nel nostro paese entro dieci giorni”. Dopo pochi giorni però ci ha riprovato, è arrivata in Germania, è salita su un furgone e ha viaggiato verso l’Italia, ci è riuscita.
“Quando sono arrivata a Milano non sapevo dove fossi, ho visto un grande stadio, era San Siro”. Elisabetta Cebotari, è una signora bionda, anche lei moldava, ha superato i cinquant’anni, ha una vaga somiglianza con Virna Lisi. E’ stata lontana dai suoi figli, senza mai vederli, “per tre anni e otto mesi”, ma non vuole parlarne, perché ricordare fa male. Da otto anni è la badante di Elvira, 97 anni. Elisabetta ne parla come se parlasse di una bambina. “La Elvira adesso dorme, possiamo parlare” dice sottovoce. Vivono assieme a Brescia, che è stata una delle zone più colpite dalla pandemia di Covid19 la scorsa primavera.
"Il 6 di marzo mi sono ammalata. Ho avuto la febbre alta, poi tosse, dolori a tutto il corpo, alla fine mi sono aggravata e quasi non respiravo. Ho chiamato il 118 e quando sono arrivati mi volevano ricoverare ancora prima di farmi il tampone, che allora si faceva per i malati proprio gravi. Avevo tutti i sintomi, mi hanno detto. Ho detto di no, ho deciso di non andare in ospedale perché non volevo lasciare sola la Elvira. Il fatto è che lei ha soltanto me, non ha più nessun altro al mondo, eccetto un fratello che però ha anche lui più di novant’anni. Non potevo abbandonarla. Allora ho chiamato il mio medico di famiglia e, grazie ai suoi consigli, mi sono curata a casa. Mio figlio, che adesso vive anche lui a Brescia, veniva a portarmi le medicine e la spesa al pianerottolo. Poi si è ammalata anche la Elvira. Ho avuto paura, ma l’ho curata ed è guarita. Ce l’abbiamo fatta”.
Lei e la Elvira sembrano due naufraghe su una zattera. In questa zattera le notti sono lunghe e faticose. “Mi alzo anche tre volte per notte, perché la Elvira è confusa. Mi scambia per la sua figlia, che è morta. Mi sgrida, si arrabbia”. Certe figlie sono uguali ad altre, la notte.