Il Figlio
La lingua del mondo
Quando le parole dei bambini ci ridisegnano da capo, e poi scompaiono. Era un incanto
La madre, ma anche i padri, sono una lingua. Leo Spitzer, il grande filologo austriaco di primo Novecento, nel suo Piccolo Puxi descriveva la lingua tutta fatta di suoni ed emozioni avevano inventato per il figlio appena nato. Per mesi si era messo lì in un angolo, col taccuino in mano, ad annotare i nomi con cui la moglie chiamava il piccolo Wolfgang, che in questo miracolo linguistico era diventato Puck, Pückchen, Pucksi, Puxi; ma anche Bübi, Mausi, Katzi, e poi Tüdülütchen e Schnützeling. Anche mia figlia risponde a una lunga serie di soprannomi accumulati negli anni, creati per caso, sulla scia di un suono, di un’associazione, di un’immagine improvvisa. Li collezioniamo questi piccoli sinonimi non-sinonimi, come se ne avessimo bisogno più di qualsiasi altra cosa: come se tutti i nomignoli fossero un accerchiamento progressivo, un modo per dire con la maggiore approssimazione possibile quel sentimento che sfugge da tutte la parti; che non riesce mai a essere contenuto in un solo nome.
Elizabeth Strout mette ai piedi del letto di Lucy Barton una madre stanca e il suo flusso continuo di parole. Una madre che nonostante tutto riesce ancora a essere un riparo, ed è comunque una lingua. Chiama bestiolina la figlia adulta, ma poi non ce la fa: non riesce a dire Ti voglio bene: non ha le parole per connotare i sentimenti, perché ha avuto una vita troppo dura. Non sa parlare di quello che tiene nel cuore. La madre è una lingua che ci dà forma. E può farlo anche se a parlare c’è una donna che un bambino non lo ha voluto. "Lettera al figlio che non avrò" è un libro di Linda Lê, autrice franco-vietnamita apprezzata dalla critica francese. La lettera è l’anatomia di un rifiuto violento: del bambino, ma anche del compagno che lo vorrebbe. Eppure la nettezza feroce svela una specie di amore. Sì, il figlio inesistente è tanto pensato, così continuamente evocato e immaginato che diventa reale. “Tu mi rigeneri, sei più vicino che mai, tu, il figlio che non avrò”.
La lingua che dice i figli, li inventa, li crea. Ma poi c’è, per quasi tutti i neogenitori, il processo inverso. Per i primi anni abbiamo il desiderio di registrare la lingua magica, fatta di mirabili invenzioni fonetiche e sintattiche, di sorprendenti sillogismi con la quale i bambini reinventano il mondo. L’ha fatto Alessandro Magrini nel diario "Il vero amore è quando si amorano tutti" (Ponte alle Grazie). Per 4 anni, ha registrato i funambolismi linguistici e logici della sua bambina – Elena - con la precisione dello studioso e la dedizione dell’instancabile biografo. Quando si scrive un diario di questo tipo, per annotare amorevolmente la crescita del proprio figlio, si è dentro e fuori la scena, ci si costringe a una postura di osservazione estatica come non accade per nessun’altra situazione della nostra vita. Non c’è alcun possibile atteggiamento critico, solo accoglienza totale. Un abbraccio narrativo, intellettivo. E così, in questo diario, tutto parte davvero dalla percezione di sé: dall’indifferenziato bumbu, alla distinzione tra bombo e bamba, dove lei, Elena, è decisamente una bamba.
Tutto parte dai fenomeni linguistici fanciulleschi. La vocale i è resa con la e aperta alla napoletana; le sorde sono tutte sonorizzate: non papà, ma babà. Tutto scintilla, quando si accende una nuova visione del mondo. Gli oggetti sono estensioni delle persone, tanto che la pera amata dalla nonna è evocazione della nonna stessa, degna di baci e di abbracci. E poi: tutto quello che non c’è – la neve sciolta, il sole tramontato, la pizza assente dalla dispensa… - è andato a dormire, bisogna fare silenzio. Sssh! Non esiste il non essere, o si è qui o j-ià (di là), o al limite a dormire, confine ultimo della percezione. Perché non è possibile che qualcosa o qualcuno non esista più: è un’idea, un concetto, che non si riesce neanche a immaginare. A non esistere del tutto, invece, è la delusione. Se ci sono le nuvole e le stelle non si possono vedere, non importa: anche le nuvole sono belle. Poi, certo, quando c’è vento non si può non salutare gli alberi che ci stanno salutando a loro volta. E ancora: perché diciamo fango e non diciamo cetriolo per dire fango? Il mondo è pieno di mistero ed è privo di confini.
Al mondo che vediamo noi adulti manca sempre una parte, un aspetto, una prospettiva. Con le parole inventiamo i nostri figli ancora prima che nascano e anche dopo, quando crescono, quando cerchiamo di capirli. Ma c’è uno spazio, dura poco, una manciata di anni, in cui sono le parole dei bambini a ridisegnarci da capo. A darci indietro qualcosa che pensavamo di aver perso per sempre: a restituirci l’incanto. “Lo sai papà, mamma mi ha portato a esplorare una chiesa…!”. “Ma che bello! E com’era?” “Era grandissima!” “E dentro? Dentro cos’hai visto?” “Dentro ho visto il silenzio”.