Il Figlio
Vivian Lamarque e le sue due madri
I versi della poetessa, il signore d’oro che le ha rammendato la vita e i dieci anni che ci sono voluti per chiamare "mamma" la madre adottiva
Di madre ce n’è una, si dice. A volte anche due. Metti nel caso di Vivian Lamarque che, figlia illegittima, a nove mesi ne trova un’altra di mamma, amorosa e adottiva. Però poi sempre rincorre la prima, quella biologica, nella vita come nella sua poesia. Con un certo imbarazzo della madre n.1 e vero dolore della madre n.2. Ma poi non sarà più giusto, vista la situazione, distribuire i numeri al contrario con il n. 2 a designare l’utero generativo e il n.1 da assegnare doverosamente a colei che ha accolto e tenuto con sé la bambina, la ha amata, cresciuta, istruita? Vivian Lamarque è una poetessa strepitosa, che alle sue madri ha elevato un altare di versi dolorosi, ma di dolore sprovveduto e interrogativo, sconsolato e perentorio e anche affettuoso e giocoso, e fiabesco, e a volte indisponente come è tipico dei bambini. Perché bambina non ha mai smesso di sentirsi (quarantenne, espresse il concetto così: “Era una signora che aveva quarant’anni, come mai?/ Va bene era nata quarant’anni fa. Però gli anni/ non erano durati veramente un anno e i mesi/ non erano durati veramente un mese…”).
Le ci è voluto almeno un decennio di psicoanalisi per riuscire a chiamare “mamma” la madre adottiva. Prima semplicemente evitava quel nome. Lo racconta in una poesia della raccolta mondadoriana Madre d’inverno: “Me l’hai detto tu che da bambina/ ti chiamavo solo la domenica mattina/ dalla vasca per lavarmi la schiena/ tu facevi finta di non sentire/ per sentirmi ripetere due volte/ ho finito mamma”. Mentre i versi che ho citato prima fra parentesi vengono da Il signore d’oro, tutti dedicati al terapeuta junghiano (citato anche altrove come B.M., iniziali immagino veritiere) che le ha salvato la vita facendola crescere, senza per niente toglierle la sua inconfondibile aria infantile da eterna figlia. Ora quella raccolta del 1986 torna dallo stesso editore, Crocetti, arricchita di un sottotitolo (Storia di un’analisi) e di una spassosissima introduzione della stessa autrice (“Quanto ha dovuto lavorare il mio dottore”).
Spassosa alla Lamarque beninteso, nel senso che non ti fa fare risate liberatorie, ma di quelle amarognole in cui ci si riconosce come in uno specchio con le proprie fantasie di ex analizzate innamorate immancabilmente del proprio analista. Ed eccola la scolaretta Vivian che molla su due piedi un precedente psic lacaniano, che l’aveva dopo una mezz’ora rinviata all’appuntamento successivo, e scende le scale del “signore d’oro”, con studio sotto il livello stradale, che la tiene ben 90 minuti e le fa raccontare tutto, ma proprio tutto dei suoi due padri e due madri e relative morti. Eccola che subitaneamente s’innamora, e decide, come nelle favole, che sposerà il suo principe. E lo assedia di lettere e disegni e per niente velate proposte d’amore. Lo dice in prosa in questa introduzione spassosa, e nelle poesie dove leggiamo più o meno la stessa storia: “Era una signora giovane e vecchina./ Dalla sua vecchierellità guardava – i lontani desideri inavverati – i bambinisogni quasi tutti azzerati”. Poveri analisti. Oltre a sorbettarsi le delusioni di una vita, le incomprensioni coi genitori quando eravamo piccoli, i desideri sfrenati relegati in un passato mai passato fin dalla culla, devono pure vedersela con subdoli o palesi tentativi di disperate seduzioni. Ricordo personali insistenze ad abbracciarlo, il mio analista. La richiesta piagnucolosa a poter fare il giro della scrivania e sedergli un attimo sulle ginocchia appoggiandogli la testa sulla spalla. Solo questo (avevo smesso di tormentarlo con sogni di furibondi amplessi sul lettino). Ne ebbi una risposta implacabile e decisa: “Non è possibile!” Ma perché, se mi ha detto che in questo studio tutto è possibile? “Perché – fu la risposta che mi placò – tutto è possibile, ma solo a parole”.
Forse anche il dott. B.M. disse qualcosa del genere a Lamarque che voleva sposarlo. Sta di fatto che lei scrive nella poesia Il signore intoccabile: “Nei sogni baciabilissimo, intoccabile come un filo scoperto nella realtà, era quel signore”. Forse solo così si supera l’edipo? E, come scriveva Philip Roth nella sua autobiografia I fatti (alla fine della sua di terapia): “Ora noi possiamo forse cominciare”. Ad andare soli nella vita? A rinunciare a essere presi per mano? A diventare finalmente adulti? Vivian Lamarque (sempre nella nuova introduzione a Il signore d’oro) la spiega con queste parole: “Il mio Dottore mi aveva rammendata tutta… grazie alla sua guida ferma sono riuscita a scalare l’Everest: splendidissima, circa splendidissima, mi regna oggi la realtà. Non che la vita immaginaria sia scomparsa, ci mancherebbe, ma non è più lei il re”. E la conclusione è una magnifica notizia: la poetessa sta scrivendo un nuovo libro di versi (io di certo non lo mancherò): L’amore da vecchia.