Stato di WhatsApp

Michele Neri

Peccati, gioie e catene: esistere con le pulsazioni. Quanto conta che lo vedano in tanti? Molto

La prima vera repubblica indipendente su cui mia figlia undicenne ha piantato la propria bandiera, è quel luogo chiamato: stato di WhatsApp. Virus e confinamento hanno anticipato l’acquisto dello Smartphone, il bisogno di fare gruppo con le coetanee. “Non tutte hanno Skype!” ha aggiunto WhatsApp alle sue disponibilità e da lì ha proseguito lei, avventurandosi al seguito di raccomandazioni e mitologie amicali, nel silenzio della propria stanza, oppure seduta dietro in auto, oppure ovunque. 


Non mi ero accorto che quel tondino su cui un giorno avevo inserito una nuvola, potesse, anzi, dovesse mutare, diventando annuncio e confessione, forma di rispetto e adesione e soprattutto pulsazione per segnalare ciò che, nell’esistenza della ragazzina, da me confinata nella categoria “ragazzinina”, contasse. 


Appena abbiamo capito quello che stava succedendo, da genitori inquieti difensori della privacy, ci siamo fiondati con la raccomandazione:
“Non mettere mai la tua faccia nello stato!”.

 
Non ha insistito. Ero pronto a cedere, sapendo che i rischi della condivisione di pezzetti di sé, l'esproprio da parte del capitalismo della sorveglianza, vanno alla radice del comportamento, lo indirizzano, lo cambiano. La faccia spaventa i genitori perché è così bella e pura, perché unica e tanto consumata dalle immagini, da sembrare perduta.

 
“Nemmeno gli occhi?”.
“No”.
Da lì sono cominciate le sue insistenti videocronache delle attività, soprattutto se ostaggio nostro. 


Che cosa avrebbe fatto di lì a poco, che cosa stava facendo in quell’istante, i programmi futuri. Aggiornamenti fondamentali se sufficientemente cool o, al contrario, meritevoli di compassione. Il tutto a un tono di voce che non le conoscevo. Impostato, sussurrevole. 


Lo Smartphone era diventato un confessionale: peccati, gioie e penitenze sintetizzati in poche battute su sfondi selezionati. 


Sono in macchina, ora vado a cena, poi andrò al mare, a lezione di danza, devo devo studiare, andare a dormire, non ho sonno, chi è sveglio con me? Cole Sprouse di Riverdale è bellissimo anche quando è ferito. In primo piano il gatto addormentato sulla sua pancia. 


Noi: “Non mettere informazioni precise! Pensa ai ladri”. 


Lei obbediva con tono di superiorità. Pensavo all’ingenuità nostra, mia. Davvero un ladro potrebbe intercettare quella sua vocetta, e ora finalmente si mangia bene! Siamo da McDonald’s, primo piano del Ketchup, e fiondarsi a casa mia per rubare questo computer? E’ quello che vogliamo credere, per poter credere a qualcosa in mezzo all’incredibile. Un effetto dell’ingresso di un figlio in un territorio digitale di cui non si vedono confini né, se tuffandosi, ci si schianterà, quindi tutti, è scoprire di avere paure inutili o ritardatarie.
 

Condividi se non sei razzista


La tecnologia è diventata l’adolescenza del vivere e viceversa: ti preoccupi ma ciò che temi, avviene altrove.


Un altro effetto tocca il senso del tempo: il fatto che uno stato sia visibile soltanto per ventiquattr’ore, è una legge adatta ai tempi oggettivi e che lentamente distorce quelli soggettivi. L’intervallo di vita degli stati, soprattutto quando quelli creati in un singolo periodo di rotazione della Terra sono decine, travolge memoria e attenzione. Scompaiono troppo presto, finché fai tua questa legge temporale draconiana. Così non è più soltanto nel tempo che, quando crescono, ti abitui ad avvicinare meno i figli, è anche nello spazio in cui vive il tempo, che non trovi più sincronia. Le due ventiquattr’ore procedono parallele senza incontrarsi, ma tu che non sei nato così, t’illudi.


Questioni che scivolano via perché l’oggetto degli stati è cambiato. La fase faccio ahimè, faccio che figata è stata rimpiazzata dalle simil catene di Sant’Antonio, con quello sciupio logico-temporale tipico delle medie, però aggiornato: Condividi se non sei razzista. Come criticarla? Mi ha dato retta solo quando le ho detto il senso della parola inglese dork: ci siamo trovati d’accordo, è il principe di quegli “stati”. 


Ho tentato di capire che cosa contasse davvero per lei. Non sono sicuro che la domanda avesse il senso che conservava per me. Anche se il momento preferito della giornata era quando entrava nella sua stanza, chiudeva la porta, poi giù uno stato dopo l’altro, oppure, in mancanza del proprio telefono, inondava quelli di tutta la famiglia, quando le ho chiesto ma che piacere ti dà, ha esitato. 


“Non lo so. Dico quello che mi succede”.
“Quanto conta che li vedano in tanti?”.
“Molto”.
Non ho chiesto: “Perché”, soltanto perché ogni tanto mi ricordo ancora in che mondo vivo.
 

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