Il Figlio
Tutti i miei alibi
L’infarto di mia madre e la mia fuga egoista. Solo lei ha sempre capito tutto
Quando l’anno scorso mia madre ebbe un attacco di cuore, non riuscii a tornare in Sicilia. E’ successo un pomeriggio di fine gennaio. Uscita dal lavoro, era salita in macchina, le si era annebbiata la vista, si era fermata ancora nel parcheggio dell’ufficio e, mentre la schiuma le usciva dalla bocca, con le ultime forze aveva aperto la portiera e premuto il clacson le volte necessarie per non morire sola. Mentre mia madre aveva un infarto, io a Roma scrivevo per il mio giornale, per quel mestiere egoista che mi sono scelto, scrivere, in cui la presenza degli altri non è contemplata. Mi chiamò e disse solo da mezzo intubata “Sono in ospedale”. Era una di quelle sere in cui le parlavo distrattamente, e non feci caso alla voce pastosa e più arrochita del solito, quando cioè inserivo il pilota automatico per le domande, sempre le stesse, che mi poneva.
In più, mia mamma in ospedale ci lavora, per cui la frase non aveva risvegliato la mia attenzione. Fu quanto aggiunse dopo a farmi franare. “Oggi pomeriggio ho avuto un infarto”. Ci pensò mio padre a ragguagliarmi sui particolari, dopo che mia madre – troppo affaticata per proseguire nella conversazione ma non prima di avermi sussurrato “ora sto bene” – gli passò il telefono. Me li avrebbe ripetuti anche nei giorni seguenti, per tutte le altre sere in cui lei rimase ricoverata, credo per colmare il silenzio di quel nostro spazio telefonico del tutto inedito. Di solito, io sento mia mamma mentre lui è nella stessa stanza. E lei non me li avrebbe raccontati mai tutti i dettagli, lo sa che sono impressionabile. Infatti, lì iniziò la mia insonnia.
Per mesi, non appena mi mettevo a letto, l’immagine di mia madre con la schiuma alla bocca ha infestato le mie notti. Quella sera stessa al telefono, mi sentii in dovere di accennare alla questione rientro a casa, a fatica scartai parole come “orari di visite”/“biglietto”/ “treno” : avevo paura di quello che avrei trovato, mentre la mia vita lontana, qui a Roma, mi piaceva e non volevo lasciarla. Due giorni dopo avevo anche la presentazione del mio ultimo libro e non volevo mancare. Fu mia madre dal letto d’ospedale a prendere per tutti una decisione, brusca e tenera com’è lei: “E’ inutile che vieni, ormai sto bene, mi devo solo riposare. Poi c’è questo virus. Starai di più a Pasqua”. Era deciso.
L’inizio del Covid mi agevolò e il lockdown mi concesse di saltare la Pasqua. Nelle videochiamate ci saziavamo di bugie: “Come stai?” chiedevo. “Benissimo”, rispondeva. Così, mi convinsi che entrambi avevamo paura. Io, di scoprirla cambiata. Lei, di mostrarsi ferita. Sono cresciuto imitando mia madre, sognando di diventare invincibile come lei, indossare i suoi vestiti e i suoi gioielli, tenere i capelli rossi e lunghi come lei, avere le sue mani e la sua voce, e il pensiero di vederla malata mi spaccava. Non so dire quanto amore le sia costato mentirmi mentre si sottoponeva al secondo bypass senza informarmi, per lasciarmi tranquillo in quella pace bugiarda. Una delle frasi che dico spesso di me è che ho forza di volontà e so prendere decisioni difficili, mentre invece sono solo un maestro di autoinganno. Quando è arrivata l’estate, ecco che la sostituzione estiva nel mio giornale mi offre l’alibi per continuare a scappare.
E di nuovo lei me lo permette: “Ma certo gioia, staremo insieme a Natale”. Temo si sentisse come una macchia che si arrende al destino di essere cancellata. Questo Natale, ho deciso che era arrivato il momento. Corsi a comprarle dei regali: avevo bisogno di cose da mettere in mezzo tra noi per non doverla guardare da troppo vicino, vestiti eleganti come quelli che indossava una volta, per truccare la sua figura guastata dalla carezza della morte. Per farmi perdonare di essere un figlio vile ed egoista. Soprattutto, di essere incapace di vivere all’infuori di un mondo raccontato. Quando l’ho rivista, ho capito che se avessi continuato ad amare la narrazione di mia madre, mi sarei perso mia mamma. Ora scrivo per chiederle scusa, perché per un anno ho contribuito a spezzarla con la mia finzione, mentre lei mi ha lasciato fare senza dimenticarsi mai di domandarmi ogni sera: “E tu, come stai?”.