La libreria tremenda e bellissima di Gibert Joseph
Addio, gran casino delle librerie di Parigi in cui era bello diventare grandi
La bellezza, spesso, non sa che farsene di essere bella, perché non ha paura di essere sgangherata, spettinata, stonata. La bellezza è Anna Magnani che inciampa, la marcetta funerea di 8 e ½, la prosa di Hemingway. La bellezza è talmente bella che può permettersi pure di essere brutta, se le va. Brutta persino come una specie di grande magazzino, fatto di cose affastellate una sull’altra, senza senso, senza ordine, senza disciplina. La libreria Gibert Joseph, sotto l’insegna del faccione di un ragazzo sorridente a Place Saint Michel a Parigi è così: tremenda. Eppure bella da restarci senza fiato. Un caravanserraglio polveroso e dozzinale di libri, di ogni tipo e di ogni lingua, mescolato a paccottiglia da turisti, vecchie cose, cd, vinili, giornali, poster, calamite da frigo. Un casino che si estendeva fino al soffitto e si diffondeva per quattro diversi negozi (uno, per quanto di sei piani, era troppo poco). Unici orpelli, in quel suk che si diceva libreria, erano alcune tende gialle e stinte e, lungo il marciapiede, alcuni teli di plastica, brutti come solo i teli di plastica sanno essere, che servivano a proteggere i bancali esterni dalla pioggia.
Gibert Joseph non era un tempio della sapienza in forma di carta e inchiostro. Anzi: era il suo contrario. Un posto nel quale i libri non se la tirano. Solo, stanno lì: a farsi sfogliare, spulciare, scegliere, prendere (pagarli o meno, in quel via vai di gente, era questione assai soggettiva). Non c’era, tra gli scaffali di Gibert Joseph l’aura sacrale, del silenzio, dell’austerità, delle librerie vere. Gibert Joseph era una specie di piazza nella piazza, fatta di carte impolverate e disordinate a metà prezzo, a misura di turisti confusi e stupiti, di sedicenti intellettuali occhialuti, di poeti che hanno perso i loro versi, di giovani squattrinati in cerca di libri in offerta speciale, di anime perse in cerca di risposte, di flaneur in cerca di riparo dalla pioggia. Tutto questo, tra poche settimane, non ci sarà (quasi) più.
Il Monde scrive che delle quattro librerie di Place Saint Michel, ne resteranno aperte solo due. Colpa del Covid, colpa dei turisti che non ci sono, colpa dei lettori che non sono più quelli di una volta, colpa dei tempi, colpa delle cavallette. Probabilmente colpa di nessuno perché, a volte, le cose semplicemente succedono. I dinosauri si estinguono, gli imperi crollano, la gente muore, le librerie chiudono. E però a me dispiace. E mi dispiace per una questione molto personale: se mi chiedessero dove sono diventata grande risponderei senza dubbio che è successo lì, tra i libri al cinquanta per cento e i souvenir fatti in Cina. Non che io ci abbia trascorso poi chissà quanto tempo dentro Gibert Joseph. Solo un po’ di minuti. Ma che minuti.
Tra quegli scaffali, dove ero capitata per caso durante un viaggio rubato alle vacanze di Natale dei miei 14 anni, mi è apparsa, scalza, spettinata e disarmonica, la bellezza. Aveva l’aspetto stazzonato dei libri di seconda mano, delle pagine ingiallite, delle copertine stinte dal sole; aveva la voce delle parole scritte in lingue che non conoscevo e delle cose che non sapevo. E così, quando mi è apparsa, la bellezza ha fatto alla mia vita una cosa importante: ha preso i giorni casuali di un’adolescente e ha dato loro una direzione, uno scopo. Il mio, di scopo, divenne far somigliare la mia vita da grande a un covo di cose e storie, di parole e paccottiglia. A portarmi lì era stata mia madre: i genitori, si sa, sono adulti che insegnano cose che non sanno. A volte, quegli stessi genitori di cui poi parleremo male in psicoterapia, fanno la cosa giusta: affidano i loro figli a chi ne sa più di loro. Mia madre, in quei lontani anni Novanta, mi prese e mi affidò a Parigi, alle sue librerie che sembrano mercati rionali: che ci pensassero loro a indicarmi la via. Credo abbia funzionato e che quello che mi succede oggi, ogni giorno, sia cominciato lì, mentre le chiedevo gli spiccioli per comprare “I Tre Moschettieri”.