Sposami, stupido
Perché l’amicizia non può essere amore? Le furiose domande del romanzo di Rufi Thorpe
Vorrei sposare il mio migliore amico. Lui lo sa ma ha un fidanzato, quindi niente, me ne sto a casa mia, cosa che farei anche da sposata con lui. Spero che, quando avranno finito di falcidiare tutti gli stringenti, insostenibili, attanaglianti tabù occidentali, e di decostruire il biologico e l’aritmetico e l’immanente e il trasparente, i diciottenni e i ventenni di questo mondo si impegnino in una intensa campagna culturale in favore del matrimonio d’amicizia. Quello che rese felice Irene Brin e che renderebbe felice me – e anche mia madre e la madre del mio migliore amico, la quale quando sente il mio nome, sospira e dice: che peccato.
Da quando il mio migliore amico è il mio migliore amico, ormai quasi vent’anni, ho avuto un considerevole numero di relazioni, alcune anche serie con persone che speravo mi vedessero come sa vedermi lui, di notare un neo che ho sulla caviglia, di avere sempre voglia di riguardare lo stesso film; persone con le quali fosse divertente rubare il pane del forno e nasconderlo nel cappotto e mangiarlo in ascensore, come ho fatto con lui per anni, ma le volte che l’ho fatto con i fidanzati è stato terribile, come quando Woody Allen prova a scottare le aragoste con donne che non sono Diane Keaton. Il mio migliore amico è la mia Diane Keaton, non si scandalizza quando urlo, bestemmio, sbavo, ha notato il neo alla caviglia che ho preso dalla mia bisnonna, sa dove voglio essere guardata, sa cosa voglio che si capisca, sa come non farmi sentire sola quando voglio stare sola. Non so se sono in grado di assicurargli le stesse cose, so che ci amiamo e basta e che vorrei sposarlo per non perderlo e per fare contenta mia madre e me e perché voglio morire prima di lui, con lui vicino.
Dovremmo sposare i nostri amici e farci dei figli, non capisco perché nessun movimento femminista ne faccia una bandiera. Risparmieremmo all’amore tutto ciò che lo logora e non estingueremmo il desiderio di essere visti, come ci vede un amico, da un innamorato. “Io la vedevo, Bunny, mi riempiva gli occhi, ma non era abbastanza. Neanche il modo in cui lei mi amava era abbastanza. Forse l’amore non sarebbe mai stato abbastanza. Forse non sarebbe mai stato capace di essere quello che volevamo”. Lo pensa Michael alla fine di La nostra furiosa amicizia (Bollati Boringhieri), il romanzo di Rufi Thorpe tradotto da Claudia Durastanti, che parla di Bunny e Michael: diventano amici da bambini, in una cittadina della California che sembra Wisteria Lane, e si difendono dalle bugie, dalla violenza dei genitori, dalla doppia vita delle famiglie di tutti.
Lei è bella, ricca, altissima e buona, preferisce gli amici maschi per giocare a basket senza che la seduzione ci si metta di mezzo; lui è intelligentissimo, omosessuale non dichiarato, figlio di un criminale che picchiava la moglie, finita poi in galera per avergli piantato un coltello nel petto cercando di difendersi – in questo libro c’è l’amicizia letteraria all’americana, quella di Pomodori verdi fritti non di Stand by me, ma ci sono pure le assurdità della giustizia americana, raccontate come il principio del collasso sociale. B è troppo bella e forte, solleva divani e massi senza sforzo, e l’unico a non temere i suoi super poteri è Michael, che di lei ama tutto e conosce le vulnerabilità, i talloni. B ed M si guardano andare verso la vita, il sesso, i bulli, la scuola, il futuro, e si assicurano a vicenda un cantuccio in cui tornare a essere amati come si dovrebbe essere amati. C’è una tristezza furiosa che Thorpe mette negli occhi di B ed M, ed è la consapevolezza di non essere sufficienti l’uno all’altra, semplicemente perché il loro amore incredibile ha un altro nome: amicizia. Tra decenni scopriremo forse che quest’insufficienza è un vizio culturale e che non sentirci completi di fianco al nostro migliore amico è un fatto di clima. Lo spero: io ci sono già arrivata, modestamente.