il figlio
Ti amo, tempesta
Infanzia folle, incantevole e spietata. Chi la vuole una madre “normale”?
Mia madre, a carnevale, mi vestiva da Pierrot. Io volevo essere Barbie Luce di Stelle, Barbie Fior di Pesco, ma niente: in casa avevamo quel costume, e ci dovevo crescere dentro. Sulla faccia, con la sua matita per gli occhi, mi disegnava un’enorme lacrima nera. Con la cipria, invece, m’impallidiva. Lo stesso trucco che rendeva bellissima lei, faceva di me una maschera triste.
Ecco perché ho amato da subito la folle, e struggente, e divertente “Tempesta madre” (Einaudi) di Gianni Solla. Perché comincia così: “A carnevale mia mamma mi vestiva da Hitler. Ma come le saltava in mente. Le mamme degli altri bambini non ci invitavano, e io e lei andavamo a festeggiare all’autogrill a Capodimonte con una finta copia del Mein Kampf appoggiata su un tavolino a forma di spicchio di pizza”.
C’era chi se la passava peggio di me, insomma. Jacopo, per esempio, che oggi è un trentunenne dissestato. Lavora ai servizi sociali del Comune e partecipa ai corsi di formazione pomeridiani per rimorchiare le colleghe divorziate. Donne di passaggio con cui ingannare il presente e cancellare il futuro. Mezza vita da seduttore, mezza da figlio. Ancora figlio, al capezzale della madre finita in una clinica, trovata da una vicina a girovagare di notte, in abito da sposa. La conoscono tutti così, infatti, a Villa Arby: la sposa. Donna senza nome, preceduta sempre dalla sua stravaganza. Perché, a parte un’unica volta tenerissima, Jacopo chiamerà sua madre, pagina dopo pagina, in un modo soltanto: la segretaria. Segretaria delle Edizioni Brahms, per la precisione: fumatrice accanita, innamorata della musica, dei libri, e di un macellaio che è tutto il contrario di lei. Il padre di Jacopo, appunto. Da cui si separa senza separarsi mai. Persona solida, e un po’ rude, in perenne conflitto con l’indomabile dirompenza di quella donna bellissima, fluorescente come gli anni Ottanta.
Jacopo, l’uomo precario che non riesce ancora a diventare adulto, non fa altro: scivola nel passato, per ricomporlo. Ma i pezzi sono tanti, e la colla è poca. La casa abusiva del Rione delle mosche, Napoli. Il bagno senza porta. Un solo letto in due, e la segretaria che lo stringe a sé, facendolo sentire al riparo da tutto. Oppure che sbuca dall’armadio con una coperta scura addosso e un fazzoletto bianco al collo, per farlo ridere, imitando le suore dell’Istituto Santa Sofia. La scuola in cui Jacopo è il bambino fragilissimo, il più intelligente, troppo sensibile. Quello con la mamma strana. Che sviene durante la gara di poesie, un attimo dopo che il figlio, sul palco, ha declamato la sua. Costringendolo a vergognarsi due volte: per la poesia, che nessuno ha capito, e per la donna che giace priva di sensi, laggiù in fondo alla sala. Sua madre. Comunque sua madre. Sempre sua madre: da difendere, da perdonare, da amare. E se la segretaria, quel giorno, avesse finto di svenire soltanto per distrarre il pubblico, e togliere suo figlio dall’imbarazzo?
E mia madre, allora? Quando, da adulta, le ho chiesto perché a carnevale non mi vestisse mai da Barbie, o da principessa, mi ha risposto che ero grassottella. “E cosa c’entra?”, ho insistito. Temeva che gli altri, immersa in tutto quel tulle, potessero prendermi in giro: “Non lo avrei sopportato”, ha detto. I figli dei genitori singoli non sono mai soltanto figli. Sono anche partner, spalle, fratelli o sorelle, rifugi. Può capitare che restino bambini troppo a lungo, e non per capriccio, ma perché non lo sono mai stati veramente, quando era tempo che lo fossero. A volte si salvano scrivendo: come Jacopo, chiuso nella cella frigorifera della macelleria del padre, chinato sui fogli che servono per impacchettare la carne.
Gianni Solla, confondendo i ricordi con la fantasia, mette insieme questa storia incantevole, che ha i colori accesi dell’infanzia, e gli odori aspri della disillusione.
“Tempesta madre” è un passo a due commovente, allegrissimo e spietato. Il dilemma di un figlio che vuole essere all’altezza di sua madre, ma allontanandosi da lei. “Perché non le assomiglio?”, si domanda Jacopo. “Perché la bellezza, come la follia, delle volte salta una generazione”.