il figlio
Figlio del punk
La libertà di crescere con l’hardcore italiano degli anni 90. In furgone
Ricordo il momento esatto in cui per la prima volta ho sentito farsi materia viva la parola libertà, più o meno come un pugno improvviso tra la pancia e lo stomaco. Ero davanti all’oceano Atlantico, alla VVF, una spiaggia di Anglet, in Francia. Nel walkman grigio, aggiustato con lo scotch, suonava “One Life, One Chance” degli H2O, e io sentivo il mondo che esplodeva violento dentro di me. Era il 1999, mi trovavo nei Paesi Baschi per una vacanza studio sponsorizzata dai miei genitori (borghese! borghese!), avevo sedici anni e in quell’istante tutto mi è sembrato possibile.
Non so quante altre volte mi sia successo di sentirmi così, non tante, ma le parole di Emma Goldman – anarchica, femminista, filosofa del Novecento – riportate in Disconnection (Tsunami Edizioni) mi hanno catapultato lì, davanti a quel mare immenso: “Oh l’ingenuità dell’entusiasmo giovanile! E’ il periodo in cui le cose più difficili sembrano un gioco da ragazzi. E’ l’unico periodo che conti. Purtroppo dura poco, questa fase dello Sturm und Drang è dove inizia la crescita, fragile e delicata che matura e che viene uccisa a seconda delle capacità di resistere alle migliaia di vicissitudini della vita”. Mi sono rivista con i pantaloni larghi e la maglietta di qualche gruppo sconosciuto, con il mio taccuino nello zaino, e le scarpe da skater ai piedi. Che cosa direbbe quella ragazzina alla me di oggi? E alle mie figlie? Ho salvaguardato quel senso di libertà dagli eventi della vita? “Disconnection” è il fantasma del passato che è venuto a farmi visita. Il libro di Giangiacomo De Stefano e Andrea “Ics” Ferraris sul punk hardcore degli anni ’90 in Italia racconta la mia adolescenza e la tribù di cui facevo parte, che univa migliaia di ragazzi in Italia e nel mondo.
Per spiegare che cosa sia l’hardcore, gli autori usano una metafora abbastanza diretta: è il figlio “testa di cazzo” del punk, la frangia più radicale di un movimento musicale e politico nato negli anni ’80, in America. Le parole chiave sono appartenenza, attitudine positiva e Diy, do it yourself, in opposizione al nichilismo del punk degli inizi. Le chitarre sono ancora più distorte, le voci più urlate, i testi politici parlano di ambientalismo, animal rights, diritti civili e straight edge, lo stile di vita di alcuni che praticano l’astinenza da tabacco, alcool e droghe, come forma di rivolta al mito dello sballo degli anni ’70 e ’80. In questa raccolta di ricordi e storie ci sono le voci di chi ha solcato i palchi dei locali e dei centri sociali d’Italia, di chi ha fondato etichette indipendenti e distribuito fanzine fuori dai concerti, o via posta. Sono le voci di molti amici, di qualche amore, e tantissime band di cui conoscevo i testi a memoria (“Forse, allora, una parvenza di umanità avrebbe agitato la stanza”, Frammenti, 1997).
Erano anni di fermento. Ci trovavamo a un passo dall’euro, a Seattle sarebbe nato il movimento no-global contro il Wto, l’Organizzazione mondiale per il commercio, eravamo i primi veri figli dell’era Berlusconi. La sensazione di poter sovvertire – scusate, lasciatemi usare le parole di quei tempi – il sistema era condivisa, utopisticamente reale. Senza saperlo, dicendo anche fiumi di stupidaggini, ci stavamo esercitando al pensiero critico. Ci facevamo domande su che tipo di mondo avremmo voluto e su chi dovevamo essere per realizzarlo. Passavo pomeriggi a tradurre testi di canzoni dall’inglese, a cucinare con gli amici cous cous per le band che arrivavano da Venezia, da Forlì oppure da New York e che ospitavamo a casa nostra. Ho fatto migliaia di chilometri in macchina per vedere concerti, ho fatto tour in furgone, partecipato a centinaia di manifestazioni.
Nel momento più importante della mia vita – come lo definisce la Goldman – mi sentivo parte di qualcosa in cui mi riconoscevo, e avevo la sensazione fosse un posto giusto. Quella libertà, passata attraverso le cuffiette di un walkman, letta nelle fanzine, conosciuta nei viaggi in Europa, prima di tutto mi è stata donata dai miei genitori che con fiducia mi hanno lasciata sperimentare chi fossi, senza mai perdermi di vista. Ed è forse solo questo che alla fine devo ricordarmi con le mie bambine.