Il Figlio
Le non mamme
“Tu non puoi capire”, dicono le madri a chi madre non è. Diario minimo di ribellione al faro puntato in faccia
Dicono che quando si diventa genitore si acquisisce un superpotere. Quello di sentire il pianto del neonato anche a distanza di metri e con due porte chiuse, o quello di riuscire a restare concentrati durante una videoriunione di lavoro mentre nell’altra stanza lui si esercita con il flauto. “Tu non puoi capire”, dicono le madri a chi madre non è. Non puoi capire, cioè non hai il potere di capire. Il superpotere del genitore. C’è, nelle persone che hanno figli, una specie di orgoglio con il quale se ne vanno fieri in giro per il mondo, come se aver messo al mondo un bambino fosse un merito e non, invece, il risultato di una statistica secondo cui su 300 milioni di spermatozoi uno riesce incredibilmente a risalire la corrente come un salmone e a fecondare un ovulo. Non c’è nessun talento, solo una gran botta di culo.
Però loro hanno sul petto questa specie di spilletta che dice “io ho un figlio”, io sono sopravvissuta ai dolori del parto, a mesi di notti insonni, all’ansia di lasciare il sellino la prima volta che andava senza rotelle, ai colloqui con i prof di matematica. E tu? Tu non puoi capire. Tu sei una non-mamma. “La non mamma ha un non davanti, che sta acceso come un faro”, si legge nel libro di Susanna Tartaro, “La non mamma”, pubblicato da Einaudi. Un diario minimo, un quaderno di appunti di una vita senza passeggino ma con un motorino con cui l’autrice – giornalista radiofonica a Fahrenheit e collezionista di haiku – attraversa la città di Roma leggera. Nessun figlio-koala addosso, nessuno zaino da portare fuori scuola.
Alle non mamme si presta un ascolto selettivo: vale la pena sapere cosa ne pensano dell’ultima serie tv uscita su Netflix – perché loro la sera non devono mica mettere a letto i pargoli, controllargli i compiti, la cartella e che abbiano le le coperte ben rimboccate anche se è maggio – ma cosa vuoi che ne sappiano della vita vera. Non puoi capire che significa avere paura di prendere il Covid con un figlio a cui badare, non puoi capire che ansia fanno le notizie sugli iceberg che si sciolgono e che potrebbero sommergere le terre su cui lasceremo i nostri bambini ormai adulti, non puoi capire quanto è difficile dirgli “no” quando ti guarda con quegli occhioni lacrimevoli, non puoi capire che gli diciamo “sì” per compensare il senso di colpa di aver passato tutto il pomeriggio in riunione su Zoom.
Quel faro davanti a ogni donna senza figli dice di lei che è una senza radici e senza semi, una a cui la vita farà meno male, una che declinerà ogni verbo sempre e solo alla prima persona singolare. Una senza il moltiplicatore, senza il superpotere. Una che vale uno, o forse anche meno. La sensazione è che le non mamme siano persone difettose, a cui manca un pezzo: non importa se non abbiano desiderato figli o se non siano riuscite ad averne. Per scelta o per sfiga, si ricade in quella disabilità, in quella mancanza del superpotere. Ma al “tu non puoi capire” delle madri se ne può contrapporre un altro, ben raccontato da Chiara Gamberale in un fantastico scambio di battute nel libro “Adesso”, quando Pietro dice a Lidia: “Tu non sai cosa significhi avere un figlio” e Lidia gli risponde: “E tu cosa ne sai di cosa voglia dire non averlo?”.
A ogni “tu non puoi capire” le non mamme rispondono in maniere differenti. Qualcuna abbassa lo sguardo, qualcuna si gode la sua libertà. Qualcuna vorrebbe urlare per la rabbia, qualcuna si sveglia tardi ogni mattina. Qualcun’altra, come Susanna Tartaro, scrive: “Mi educo e mi vizio. Mi compro quello che voglio”. C’è, nel suo racconto, una sottile rivendicazione, un’orgogliosa solitudine di chi ha imparato a prendere dalla vita quello che viene – andare in giro in motorino, l’aperitivo con gli amici che ridono, il lavoro, il disordine – senza recriminare per quello che non è venuto. Perché in qualche modo bisognerà pur compensare questa mancanza, anche quando mancanza non è. Non sempre si desidera diventare madri, ma sempre si desidera essere guardate senza quella pietà che accompagna ogni “tu non puoi capire”.