Il Figlio
Madre canguro
A me non succederà, mi dico mentre mi precipito a telefonare a mia figlia
Preparo la piccola valigia con cura, la preparo come avrei fatto da ragazza: calcolando cioè l’evenienza di una svolta mondana della serata. Aggiungo un vestito, oppure scarpe degne di nota magari con il tacco, io che i tacchi non li metto mai. Sono i mesi delle presentazioni del mio libro in giro per i festival, per l’Italia, per città dove forse non sarei passata mai. Sembra il ritorno della giovinezza e del nomadismo di un tempo lontano. E’ tutto un salire, scendere dal treno, arrivare negli alberghi che hanno prenotato per me e che non mi piacciono mai, non perché siano brutti o anonimi, ma perché il primo gesto che faccio arrivando in una camera d’albergo è togliere la sopra coperta - la sopra coperta mi fa orrore: mi sembra che sia lì a nascondere qualcosa, è insincera, è opaca.
Ma se sono sola, come quasi sempre quando viaggio per lavoro, scosto la sovra coperta da un unico lato: quello dove dormirò – anzi, non dormirò – aggrovigliata nei miei pensieri, nella mia solitudine. Poi con stizza la tolgo tutta, la butto per terra come un drappo di scena. E lì, ogni volta, capisco che in me è cambiato qualcosa. Scrive Natalia Ginzburg nel suo Discorso sulle donne: “Ho conosciuto delle donne che potevano prendere il treno e partire lasciando i propri bambini per qualche tempo senza sentire una terribile angoscia…” Quando l’ho letto ho pensato: io sarò tra quelle donne. Lo sarò perché amo viaggiare, mettere in scena fughe momentanee, momentanee amnesie di me stessa che mi consentono di smettere l’identità di cui parla il mio spazio domestico - avrebbe detto Virginia Woolf - per buttarmi nell’indefinitezza del mondo: in uno spazio altro che diventa spazio mentale, apre una finestra e ti fa sentire libera, o quasi.
Dal treno ho chiamato mio marito, volevo parlare con mia figlia. Ma lei no, era impegnata in una partita sul tablet e non poteva interrompere il gioco, insomma non ora, mamma! Sono scesa da quel treno contenta, stasera ci sarà la mia presentazione, certo in contemporanea alla semifinale degli europei, ma non importa.
Ero serena. Poi in camera, dopo aver buttato a terra la sopra coperta, ho preso una valeriana, pensando già alla telefonata della buonanotte a mia figlia e a mio marito. Natalia Ginzburg aveva conosciuto delle donne che potevano vivere quietamente per molti giorni lontano da casa senza provare alcun tipo di paura come invece capitava a lei ogni volta; donne che forse erano più in gamba. No, io non ho mai avuto paura, mi dico. In tempo per accorgermi che non ho portato gli occhiali da lettura e quindi dovrò chiedere alla presentatrice di leggere al posto mio; in tempo per accorgermi non solo di non aver portato gli occhiali da presbite, ma neanche quelli da miope né il liquido per le lenti, così quando tornerò nella solitudine della mia camera d’albergo stasera, oltre che lontana da coloro a cui fingo di non pensare, una volta buttate le lenti, sarò anche cieca; cieca e sola in una città sconosciuta.
E allora, arrivata alla biblioteca dove ci sarà l’incontro, dico subito: Devo trovare una farmacia. Prima delle presentazione?, mi chiedono. Sì, prima. Si sente male? E io non rispondo, non so esattamente cosa rispondere. Mi consolo pensando che una vocazione è l’insegnamento migliore che possiamo dare ai nostri figli (anche in questo seguo Ginzburg). La vocazione come passione ardente ed esclusiva. Qualcosa che richiede spazio e silenzio; libero silenzio nello spazio. Mi consolo pensando che sto dando il buon esempio, mentre corro verso una farmacia ancora aperta ed entro come se avessi bisogno di una trasfusione. Pago il liquido delle lenti con le mani che vibrano d’adrenalina. “Non posso pensare tranquillamente a girare i paesi come vorrei, a dire il vero ci penso sempre ma so bene che non mi è possibile farlo. Così ci sono delle donne canguri e delle donne non canguri, ma le donne canguri sono molte di più.” La donna canguro finisce la presentazione e si fionda fuori dalla biblioteca per telefonare a casa.
Gaia Manzini
E' in libreria il suo romanzo "Nessuna parola dice di noi" (Bompiani)