Una donna si trasferisce a vivere in un piccolo paese della Spagna contadina. Di mestiere traduce, e come può succedere a chi lavori con la lingua, con le parole e la loro esattezza, il suo rapporto con la realtà (anche quella del nuovo, piccolo e non facile mondo che la circonda) è un continuo decriptare. Nat, questo il nome della donna protagonista di Un amore di Sara Mesa (La Nuova Frontiera, traduzione di Elisa Tramontin, pp. 143) vive il proprio ambientamento osservando e, secondo il ragionare logico cui usa attenersi per professione, sforzandosi di continuo di ricondurre la realtà al linguaggio, e viceversa. Smarrita, anche sconcertata di fronte a un microcosmo che le appare endogamico, duro, autoriferito e perciò escludente, costruisce una strategia difensiva tutta basata sull’interpretazione. Ragiona, decifra, interpreta; quasi fosse un’antropologa, scruta e studia i suoi vicini, tanto tesa a decodificarne i codici di condotta da non accorgersi di quanto sia lei a venire scrutata e studiata. E’ solitaria e molto intelligente, Nat, due caratteristiche che basterebbero da sole a emarginarla; e tuttavia il suo amore per le parole (“vuote, mute, senza forma, finché non cominciano a prendere senso, tutti i sensi possibili”) è forte, così forte da ripararla dietro uno scudo tutto mentale e che finisce col farle prendere in faccia la realtà, la più cruda e mortificante.
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