Il Figlio

Tu che non torni

Giulio Perrone

Le troppe attenzioni di mio padre e tutte le parole rimaste in sospeso tra noi

Ho vissuto la prima parte della mia vita nel tentativo di sottrarmi all’attenzione di mio padre che con le sue cure e il suo amore incondizionato rischiava di fornirmi una rete di protezione che impedisse qualsiasi tipo di sbaglio. C’era ai miei allenamenti di calcio al punto che l’unica volta che li saltai per uscire con una ragazza lo scoprì, c’era se avevo problemi a scuola schierandosi sempre, almeno pubblicamente, dalla mia parte se qualche professore sembrava prendermi di mira. C’era se avevo difficoltà a risolvere qualsiasi questione pratica, dal bollo della macchina all’abbonamento allo stadio, dalla benzina nel motorino all’attrezzatura perfetta per andare a sciare. Da figlio unico tutta questa attenzione mi è sembrata addirittura una disgrazia che la vita però ha deciso di interrompere senza chiedere il permesso e senza che ci fosse quel momento di distacco, anche rissoso, di cui avremmo avuto bisogno tutti e due.Così la sua malattia divenne lo spartiacque tra quello che era stata la mia vita con lui e quella che sarebbe stata senza di lui. Concentrare in pochi mesi un confronto tra il mio e il suo mondo sarebbe stato impossibile anche se avessimo voluto, anche se non si fosse scelta in famiglia la strada della finzione e di un certo approccio alla malattia che lui non visse mai come tale. Il tempo insieme speso più a nasconderci dal dolore che ad affrontarlo. Vigliaccamente. Come a volte si fa per non rischiare di essere travolti dal destino.

 

A un anno esatto dalla sua morte mi sono dimesso da un posto di lavoro fisso che lui mi aveva procurato prima di andarsene e ho cominciato a fare l’editore senza sapere neanche bene quello che stessi facendo. Ho imparato il mestiere commettendo errori spesso a caro prezzo e rischiando tanto. Lui si sarebbe opposto strenuamente. Mi avrebbe contrapposto la sicurezza, le responsabilità, la necessità di accantonare a volte le proprie passioni per dovere. Lui lo aveva fatto. Lui era stato costretto addirittura a non studiare e a mettersi a lavorare per necessità. Io invece ho pensato che il modo migliore per vivere la mia vita fosse seguire fino alla fine i miei sogni perché non sarei stato mai in grado di mettere in nessun altro lavoro neanche un minimo dell’impegno e della dedizione richieste. Mi sono immaginato tante volte in che modo avrei potuto fargli accettare una scelta del genere e so che non sarebbe stato facile. Forse saremmo arrivati a uno scontro profondo, seduti ai due lati opposti del tavolo, senza trovare una mediazione. So anche però che oggi che faccio l’editore da sedici anni lui conoscerebbe ogni dettaglio di questa professione. Saprebbe compilare un colophon e una scheda commerciale, saprebbe gestire una resa e valutare l’efficacia di una quarta di copertina.

 

Si sarebbe senz’altro innamorato, con quel suo modo deciso e coriaceo, di questa mia passione e l’avrebbe fatta sua. Ci saremmo incontrati nei miei sogni e forse avrei preferito che lui se ne stesse nelle sue di passioni, la barca, la chitarra, il modellismo, tutto quello che non era riuscito a trasmettermi. So però che sarebbe accaduto: certe volte la peggiore delle condanne è stato di non avergli potuto raccontare quello che desideravo davvero, non avere in quel momento, in quei giorni ultimi gli strumenti per descrivere cosa sarebbero stati questi vent’anni senza di lui. Gli errori prima di tutto e poi le soddisfazioni, le vittorie e le disfatte e le persone che mi hanno cambiato la vita, i miei figli, Giampiero che si chiama come lui ed Enrico. Pensieri che mi ossessionano al punto da scrivere un libro che comunque non può mettere la parola fine a questo dialogo impossibile a distanza, in cui io parlo, scrivo, ragiono e lui, dovunque sia, non mi può rispondere.

 

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