Che significa “padre” se non vuoi essere mio padre?
Non si può usare questa parola alla leggera soprattutto se ci si sente figlio di nessuno
Non chiamatemi figlio. Io non sono un figlio. Non sono il figlio di nessuno. Ho consolato da solo le mie lacrime, ho rimboccato, tremando, le coperte alla mia angoscia, ho inventato storie per confortare la mia anima e scacciare la paura dai suoi sogni. Ho preso molte strade, ma cieco di rabbia, mille volte in mille inferni mi sono perso. Mai nessuno è venuto a cercarmi. Io sono il figlio di me stesso.
Mi scuso per questo inizio un po’ emotivo. Anche perché qualcuno, specialmente nella mia amata Roma, potrebbe dire: “Er fijo de nessuno? E chi sei, n’clone?”. No, non lo sono. Li ho avuti eccome i genitori, pure troppi. Ho avuto una madre, si chiamava Maurizia, una fantastica, bellissima e anaffettiva ballerina. Ho vissuto con Romano, il marito di Maurizia, credendo fosse mio padre, temuto e stimato ufficio stampa del teatro Sistina, con cui proprio non andavo d’accordo ma che ho chiamato papà con riluttanza per metà della mia vita. Finché un giorno una cara amica è venuta a dirmi che mio padre era un altro.
Si chiamava Domenico, detto Mimmo, ma tutto il resto del mondo lo chiamava “Mister Volare”. L’amico di Roma a questo punto direbbe “Ma che stai a di’? Davéro? Modugno era tu’ padre?”.
Padre? Cosa rispondere? Non si usano così alla leggera certe parole. Domenico mio padre? Si, scientificamente ci sono le prove e vent’anni di carte giudiziarie che lo confermano, ma no, come potrei chiamare padre un uomo che non ho mai conosciuto? Ma non avrebbe senso neanche continuare a chiamare Romano mio padre, perché mai? Lui stesso non ha mai voluto esserlo, tolte le volte in cui poteva essere un’occasione per sfogare su di me la sua rabbia. Un po’ di quella rabbia mi era rimasta dentro, ma ho combattuto contro di lei e alla fine ho vinto io. Ora me la prendo solo con le parole. Specialmente quelle che riguardano la famiglia. E’ un problema mio, lo so e lo dico solo perché forse può aiutare a capire la mia accorata reazione alla parola “figlio”. Figlio, padre, madre sono solo alcune tra le “belle parole” del lessico famigliare che al solo pronunciarle mi fanno saltare i nervi. Come si fa a ignorare il senso delle parole? Vorrei, ma non ci riesco.
Devo stare attento, tendo a scivolare facilmente dall’emozione all’elucubrazione fine a sé stessa. In realtà credo di arrovellarmi solo per sfuggire a ciò che da tempo ho capito su alcune “parole” della mia vita, il misero nocciolo della questione: sono io, soltanto io che mi sono sbagliato. Errore mio, non c’è dubbio. Non ho capito subito che quelle belle parole che mi venivano insegnate nella mia vita avrebbero avuto tutt’altro significato.
Si può dire tranquillamente che tutto il “marcio” della mia infanzia sia riconducibile a un errore di interpretazione linguistica, a una puerile aspettativa, tradita da me.
Perché mai Maurizia, solo per il fatto di farsi chiamare “mamma”, avrebbe dovuto amarmi incondizionatamente, coccolarmi e proteggermi? Quanto devo essere stato ingenuo, o meglio cretino (perché su, chi è ancora ingenuo a cinque anni?) per credere che Romano, solo perché lo chiamavo “papà”, non mi avrebbe riempito di botte per sfogare la sua rabbia verso Maurizia, che se ne fregava di lui e della sua rabbia? E per finire, a definitiva conferma della mia idiozia e poca lungimiranza, come ho potuto pensare che un uomo che si chiamava Domenico, sbucato dal nulla dicendo di essere mio padre, solo in virtù di quelle due sillabe avrebbe voluto conoscermi, farsi conoscere e recuperare il tempo perduto? Conoscenza, rabbia, lungimiranza, ancora parole. Continuerò a provare a capirle. Ma sarà difficile, o forse ci riuscirò, ma solo scrivendo un’altra storia.
E’ appena uscito “Fratellastri, come ho scoperto di essere il figlio di Domenico Modugno” (Mondadori)