il figlio
Il piacere della sofferenza e il tradimento del risotto piagnone
L’articolo di un giornale americano, la vista che si annebbia e i miei coltelli da cucina
Il piacere della sofferenza, hai detto? Scusa, per favore, puoi ripetere? Sì, anche se ho un coltello in mano. Ho un coltello in mano perché sto tagliando le cipolle, non perché voglio accoltellarti, credo, quindi scandisci bene: a te piace soffrire, in fondo, è nella sofferenza che trovi il senso della vita. Adesso comincio a capire, ma vai avanti, tranquillo.
La pienezza di una fatica, di un’ingiustizia subita, di un affanno, di un’arrabbiatura coi figli che dura tre giorni fino a quando non ne puoi più e compri regali per tutti, la pienezza di andare fuori di testa se qualcuno ha preso due nella verifica di Fisica, anche la pienezza della privazione del sonno, in fondo sono tutte cose che contengono in sé un certo grado di godimento e di piacere perché soddisfano la tua fame continua di significato, attaccamento e scopo dell’esistenza.
Ho già detto che è un periodo complicato. Mi si è annebbiata la vista, il coltello è partito da solo, più volte, anche tutto sporco di cipolle, ma ho molte attenuanti e i vicini lo sanno quanto sono stata sempre gentile con tutti anche quando chiudono male l’ascensore e lo bloccano per ore all’ultimo piano. Anche quando buttano i mozziconi di sigarette per le scale, io non ho mai fatto del male a nessuno. Anche quando mi rubano i giornali dalla buca delle lettere. Non lo dico per giustificarmi.
Poiché non avevo davanti una persona in carne e ossa, ma un articolo di un giornale americano sulle madri, e sul giornale il coltello non ha fatto nemmeno troppi danni (purtroppo qualcuno mi aveva nascosto le forbici), non sono andata in prigione, non ho sporcato la cucina di sangue e ho anche finito di tagliare le cipolle e ho fatto il risotto. Che come sapete è molto richiedente: non viene bene se non stai tutto il tempo a fissarlo e a incoraggiarlo e a prestargli attenzione, anzi il mio risotto non vuole nemmeno che io parli mentre a poco a poco verso il brodo e giro e rigiro con il mestolo di legno, e se dico più di due parole si attacca alla pentola, oppure si ammoscia o si rifiuta di accogliere il radicchio, insomma è un risotto che pretende fatica e noia, noia e fatica e che non sarà mai in grado di sbrigarsela da solo (non ho intenzione di parlare del risotto fatto con la pentola a pressione in dieci minuti, anche la mia pazienza e inclusività verso le diverse culture hanno un limite).
Non c’è niente di male, comunque, a essere dei risotti bisognosi e smarriti. Ho un sacco di amici risotti bisognosi e smarriti. Solo che poi, come molti editorialisti, scrittori, filosofi, professori, analisti, giornalisti, uomini che mi spiegano le cose, anche questo risotto (buono, all’onda ma non troppo) è capace di dirmi che lo fa per me, che mi chiede attenzioni continue per dare un senso e uno scopo e una pienezza alla mia esistenza, altrimenti vuota e desolata. Mi dice che io ne ho bisogno. E ridacchia. Di nuovo mi si annebbia la vista, di nuovo so di avere molte attenuanti e conto sulle dichiarazioni dei vicini di casa: era una signora molto gentile, non c’era nulla di strano in lei.
Allora tu, risotto che ti attacchi alla pentola se mi volto per rispondere a un messaggio, e mi sembra di sentirti mentre frigni e ti lamenti che non ti mescolo con abbastanza dedizione, hai sbagliato: io non provo alcun piacere nella sofferenza, come la chiamate voi, provo invece molto piacere nel piacere e non ho bisogno di te. La pentola, naturalmente, è molto sporca e tutta tua.