il figlio
La madre afghana morta per salvare i figli dall'assideramento
Si è tolta le calze per scaldare le mani dei bambini. Arrivare in Europa a piedi nudi
L’abbiamo vista distesa nella neve, con gli abiti pesanti e i piedi nudi, gonfi, avvolti in buste di plastica. Da Twitter la foto è passata sui giornali, brevemente e senza un nome: la giovane donna afghana che stava attraversando il confine tra Iran e Turchia a piedi con i suoi figli, è morta di freddo. La Turchia, cioè l’Europa, era davvero a un passo. I bambini erano stati bravi, troppo bravi, e camminavano. Ma è arrivata una tempesta di neve, come nelle favole quando finiscono male o quando serve una magia. I bambini piangevano di freddo. Lo sappiamo che cos’è il freddo nelle mani e sulla faccia e nei piedi bagnati, almeno questo non possiamo fingere di non saperlo. La madre si è tolta le calze e le ha avvolte intorno alle mani dei suoi figli, che adesso stanno quasi bene e però sono sperduti. Sono arrivati a piedi al villaggio vicino, Belesur, che è ancora in Iran, hanno immerso le mani rosse e gonfie in bacinelle d’acqua tiepida, hanno bevuto qualcosa di caldo, aiutati da adulti sconosciuti, avevano tantissima sete, e hanno sperato di tornare indietro e ritrovare viva la mamma. Sono bambini, fino all’ultimo sperano in qualcosa di buono. Ma sono stati affidati ai soldati di frontiera iraniani. Vogliamo fingere che siano salvi?
Non è così. Sono soli, hanno solo loro stessi. Nel video e nelle fotografie scattate al villaggio hanno i visi stanchi, e la stanchezza è quella che dalle mani e i piedi arriva al cuore e fa desiderare soltanto di dormire, quindi di morire. Invece sono vivi, hanno sette o otto o nove anni e sono vivi solo perché la mamma non ha permesso che restassero accanto a lei. Hanno le giacche a vento troppo leggere, una felpa, i pantaloni inzuppati. In questo momento là ci sono sei gradi sotto zero, e un bel sole. Con la tempesta di neve, non so. Non sappiamo per quanto tempo abbiano camminato sulle montagne vestiti in quel modo, non sappiamo niente di loro, e di certo c’è qualcosa di ignobile anche solo nel chiamarli migranti. Sono rifugiati che non hanno trovato rifugio. Sono bambini che hanno camminato nella neve accanto alla mamma fino a che la mamma non ce l’ha fatta più: qualcuno può farcela a piedi nudi?
In una favola di Isaac Bashevis Singer, “Zlateh la capra”, un bambino va in città a malincuore con la sua capra ormai anziana, deve venderla perché sono troppo poveri, ma viene sorpreso da una tempesta di neve, una tempesta che dura tre giorni e tre notti. Nella favola il bambino salva la capra, trovando un fienile dove rifugiarsi insieme a lei, e la capra salva il bambino, riscaldandolo e dandogli il suo latte. Finalmente smette di nevicare, e qualcuno aiuta il bambino e la capra a tornare a casa. Non si separeranno mai più, non avranno mai più freddo, perché il padre è un pellicciaio e con la neve che è caduta le persone hanno di nuovo bisogno di lui, gli danno lavoro.
In questa storia non c’è il fienile, non ci sono pellicce e soprattutto non c’è una casa in cui tornare. Se una madre ha preso i suoi bambini e si è messa in cammino, cercando di superare un confine, significa che era l’unica possibilità. Lo fanno in tanti, perché nessuno li accompagnerà in aeroporto e li metterà al sicuro su un volo per l’Europa, nessuno intercederà, nessuno li conosce né li conoscerà: allora si avvolgono i sacchetti di plastica intorno alle mani quando arriva il freddo e vanno. Sperano che succeda qualcosa di buono, sperano di incontrare qualcuno di buono. Se fosse una favola, adesso i due fratellini salverebbero la madre e le regalerebbero tutte le pietre preziose che hanno trovato nella neve, e una casa in un posto libero, con una capra in giardino.