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Il Figlio

Il più grande mistero di un uomo è la vita di suo padre, e la capacità di perdonarlo

Michele Neri

Il romanzo di Ricardo Menéndez Salmón prova a ridare un volto accettabile alla figura paterna, un modo per vedersi senza pelle o maschere

Ogni volta che avvicino un romanzo autobiografico con soggetto il padre del narratore, so che soffrirò. Non per analogie con la mia storia di figlio. Perché so di entrare in una stanza colma di frustrazione. Quella dell’inevitabile mancanza di prove per dire è stato così, quella delle cose non comunicate, non fatte in tempo; un luogo saturato dal bisogno di esprimere la verità sui fallimenti paterni per poi pentirsene. Pare impossibile essere onesti senza tagliare i legami di sangue, eppure la libreria si riempie di fantasmi trasformati in materia a furia di pianti, ricordi, rabbia. Il figlio si mette in fila per dare una picconata a una parete che si rialza subito, per non smentire quanto scritto da Manuel Vilas in In tutto c’è stata bellezza: “Il più grande mistero di un uomo è la vita di quell’altro uomo che l’ha portato al mondo”. 


E’ una sontuosa, inesorabile e poi liberatoria sofferenza quella che emerge e travolge da Non andartene docile in quella buona notte (Marcos y Marcos, traduzione di Claudia Tarolo), in cui l’asturiano Ricardo Menéndez Salmón affronta l’ombra cattiva del padre per poter uscire al proprio sole. “Sto parlando dei miei timori e tremori, delle mie conquiste, dei miei dubbi, delle mie personali invisibilità e dei miei personali veleni”. Ridare un volto accettabile al padre è vedersi senza pelle o maschere, perché la certezza del fallimento del padre era l’assoluzione dei propri peccati. S’ingurgita il veleno estirpato. E un veleno tutto maschile riempie questo memoir appassionato e rigoroso. Il padre inizia a imporre il proprio peso insostenibile quando l’autore ha undici anni: a 38 anni ha un infarto dalle conseguenze devastanti. Da quel giorno, il figlio dimentica che cosa volesse dire un padre sano, pieno di futuro. “Mio padre si è trasformato in un malato professionista; mia madre è diventata una badante a tempo pieno; io ho affrontato le difficoltà di una casa in cui si era insediata la paura”.

 

La malattia trasforma il figlio in un ipocondriaco feroce con sé. “La malattia è stato il mio destino. La mia patria. La mia bandiera”. Il padre muore a settantadue anni. Il figlio non è con lui. Dopo la necessaria distanza, si cimenta nell’impresa di scrivere di lui, cercando di dimenticare quanto aveva letto sui padri altrui. Il figlio tenta di chiudere la vita perduta dentro tre cupi cassetti: l’infarto, il successivo alcolismo accompagnato da costanti deliri con oggetto un proprio passato leggendario quanto inesistente e, negli ultimi anni, la lotta contro il cancro. Menéndez Salmón dà l’assalto al fortino in cui il padre si era barricato per decenni. La parete si alza però di nuovo così che il romanzo offre la necessaria ambivalenza perché il lettore non diventi lui stesso giudice del figlio. Proprio quando questo, raggiunta maturità e successo, padre a sua volta, si convince che, con la propria carneficina, il padre stesse pagando il conto per il male inflitto, abbandona l’abito da giudice, si allontana dalla verità, sacrificata per la bontà, quella ingiustificata, l’unica. E’ stata la malattia paterna, riconosce, a mostrargli la strada verso la scrittura. Fa sue le parole di Norman Mailer, “E’ la vita cui non puoi sfuggire quella che ti dà la conoscenza che ti occorre per evolverti come scrittore”. 
Si chiude questo libro grati per il tentativo generoso di placare la sete di certezze in una tenerezza per l’altro e per sé. Il titolo è lo stesso della poesia di Dylan Thomas e Menéndez Salmón ricorda che sono i versi ripetuti dall’equipaggio di Interstellar comandato da Cooper. Concluso il romanzo ho imposto il film alla figlia dodicenne. Da qualche parte aspettavo la scena della figlia di Cooper in lacrime, quando il padre decide di partire. Mia figlia ha pianto. Quando la gravità paterna sfuggiva miracolosamente all’attrazione di Gargantua, il mostruoso buco nero (l’oblio?), il sorriso era tornato.

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