il figlio
Trovarsi piccoli al mondo e avere paura. Crescere. Il romanzo di Marco Peano
"Morsi", l'ultimo potente romanzo dello scrittore torinese, racconta di Sonia e del grande incubo di trovarsi soli senza poter contare sull’aiuto dei grandi. In altre parole, crescere
Quando a Lorenzo capita di fare un brutto sogno, me ne accorgo già dal rumore dei suoi passi accelerati lungo il corridoio, di notte, mentre corre ai ripari chiedendo asilo al lettone. Ha il respiro affannoso e la voce ancora bagnata dal pianto, mentre si stringe tutto intorno a me, o intorno a papà Nicola, e inizia a raccontarci la disavventura onirica finché, accarezzando la barba di uno dei suoi papà, piano piano, trova la giusta tranquillità per riaddormentarsi. A volte, al risveglio, riprende il racconto dal punto in cui lo aveva interrotto, noi lo rassicuriamo, gli spiego che quello che non è reale può fare paura, ma non può fare del male, e spero di essere convincente, perché qualche dubbio, ce l’ho anche io.
E’ cosa con cui ogni genitore fa i conti sempre: ciò che accade a un bambino in quella parte di mondo in cui gli adulti non sono previsti. Come sorride agli scherzi degli amici, come nutre le delusioni, come reagisce ai rimproveri della maestra. Quale storia gli racconterà il suo inconscio, per farlo dormire o per tenerlo sveglio.
Pensavo a tutto questo poco fa, mentre finivo di leggere – di divorare, qui è il caso di dirlo – Morsi, potente, stregato romanzo di Marco Peano. Ambientato in una valle che è più provincia della provincia, isolata e distante, il romanzo racconta quello che accade alla sua piccola protagonista, Sonia, durante le vacanze di Natale del 1996, quando un incubo inenarrabile – e che, invece, Peano narra con straordinaria efficacia – la raggiunge per trascinarla a confrontarsi con un incubo ancora peggiore: trovarsi piccoli al mondo, senza poter contare sull’aiuto dei grandi. In altre parole, crescere.
Guidato da una scrittura densa e avvolgente, quello che riesce a Marco Peano è un duplice incantesimo: consentirci di spiare il mondo spietato e immaginifico dei piccoli attraverso il buco di una serratura che pensavamo chiusa a chiave, e ritrovarci per magia a spiare noi stessi, bambini che a volte dimentichiamo di esserlo stati, o di esserlo ancora, forse per un altro, assai più malvagio incantesimo. Il mondo è quello storto eppure lucidamente logico dei piccoli umani, quel mondo in cui “lo spazio si tramuta in una faccenda emotiva, che nulla ha da spartire con la fisica”. E, in effetti, quello che racconta Morsi, con la fisica c’entra davvero poco, forse nulla, mentre ha a che fare con la costruzione involontaria di una memoria, di qualcosa che ci ha riguardato laggiù, mentre eravamo troppo piccoli perché fossimo in grado di assegnarle un nome e che invece, di sicuro, tornerà a trovarci da grandi, in certe sere d’inverno illuminate dallo schermo di un pc, o in certi incubi che ci racconteremo essere solo tali, finché non troveremo il coraggio per dare un senso a quel qualcosa, chiamarlo per nome e finalmente salvarsi, perché solo “le parole salvano sempre”.
Ci sforziamo di trovare le parole giuste per tradurre la sua emotività bambina, quando Lorenzo ci racconta i suoi sogni brutti, quelli che gli hanno fatto paura e nemmeno è in grado di capire, piccolo come è, che quel sogno brutto è sempre lui, è dentro di lui, se l’è raccontato da solo, perché la paura ci appartiene come ci appartiene la speranza di viverne immuni e la consapevolezza che ciò non è possibile. L’ultima volta in cui è capitato, mentre ancora piangeva, Lorenzo ci ha chiesto come si fa a cancellare un incubo e, come sempre, gli abbiamo risposto con la verità: semplicemente, non è possibile, ma si può imparare a capire che ci sono cose che non esistono e che, tuttavia, possono fare paura, che la paura può essere addomesticata e che tutto questo significa crescere, che poi è il vero incantesimo, ma anche il vero incubo. Quest’ultima parte l’ho tenuta per me.