Il Figlio
Le parole non dette, il disagio dei figli, una serie su RaiPlay che li ascolta
"Tu non sai chi sono io" rompe la tradizionale incomunicabilità tra genitori e figlie e svela il lato più nascosto e fragile degli adolescenti
Come è andata a scuola? Bene. E poi? E poi, cosa? Com’è andata con gli amici? Bene. Vi hanno interrogato? No, cioè sì, cioè abbiamo fatto una verifica. E oggi ci sono tanti compiti da fare? No. Nel senso che sono tanti o solo qualcuno? Settimana prossima mi posso fare i buchi alle orecchie? La giovinezza vive nei nostri sogni idealizzati. Quando poi la giovinezza diventa quella dei nostri figli che non possono indossare la felpa che gli abbiamo regalato perché non si può guardare, che hanno i capelli improponibili e si devono fonare il ciuffo per un’ora, che non sanno più se uscire è bello o fa schifo perché la pandemia ha aggiunto mille dubbi a quelli che già avevano, la giovinezza diventa un pozzo scuro che fissiamo in silenzio, senza trovare le parole giuste.
Su RaiPlay ho visto una docu-serie che si intitola significativamente Tu non sai chi sono io: ogni puntata è una specie di confessione che un ragazzo o una ragazza fa ai propri genitori. Per una volta, l’incomunicabilità tra genitori e figli – che esiste da sempre e sempre esisterà – viene spezzata dalla voglia che questi giovani hanno di dirsi, di raccontarsi come mai prima, forse – viene da pensare - come effetto collaterale dei social. Oggi la vita con i suoi percorsi complessi, storti e avvitati si può mostrare al mondo, perché c’è sempre qualcuno in grado di ascoltarla e apprezzarla: lo si può fare senza essere artisti, scrittori, cantanti, ma semplicemente persone che soffrono e lottano come molte altre. I social hanno slatentizzato il narcisismo, l’egolalia, ma danno anche l’opportunità (a chi li sa usare) di mettersi a fuoco, di fare qualche passo in più nel delineare la propria personalità.
Nella serie di Alessandro Sortino c’è chi racconta ai genitori la propria omosessualità, chi il disagio di una vita fatta di sacrifici, chi accetta il proprio handicap come parte indivisibile da sé: parte che anche una madre deve imparare ad accettare. Eppure, rimane un dubbio. Non sempre i problemi di cui discutere sono così netti; non sempre le sofferenze sono scatenate da qualcosa di peculiare. Mia figlia ha undici anni e non vuole uscire: se le propongo una passeggiata con il cane, dice di no; se propongo una gita, dice di no; ha undici anni e dice (quasi) sempre di no. Anche se poi alla fine fare tante cose le piace, la prima reazione è il rifiuto. Non sa dire se si tratta di disagio, perché ancora non si sa guardare da fuori. E io mi dico che non è disagio, ma solo abitudine: la pandemia ha reso i social luoghi più frequentabili di quelli esterni, luoghi apparentemente più sicuri e raggiungibili senza molto sforzo. Lei sta con gli altri, gioca a Roblox, chatta su WhatsApp (per il momento non ha Facebook né TikTok né Instagram): semplicemente stanno insieme tra amici, ognuno a casa propria. Abitudine da sconfiggere con altre abitudini, diverse, opposte. Lo dico con la veemenza che si usa per trasformare una speranza in una certezza.
Tra i protagonisti della serie tivù c’è una ragazza che ha parlato di un disagio sottile provocato dal Covid e poi trasformatosi in panico: qualcosa di profondo che i genitori non hanno saputo cogliere. Nella via dove vivevamo l’anno scorso c’era un ragazzo, abitava a due portoni dal nostro. Tornava spesso a casa a notte fonda, ma a volte non riusciva a varcare la soglia del suo palazzo; rimaneva a vagolare per strada, lamentandosi, parlando in modo sconnesso a qualcuno che in effetti non c’era, e poi si infuriava con un nemico immaginario, con il mondo che non lo sapeva ascoltare; prendeva a calci le macchine, imprecava. Avrei voluto scendere ad abbracciarlo, ma avevo paura. Arrivava la polizia, talvolta l’ambulanza che se lo portava via. Non ho mai saputo come si chiamava, ma lo penso spesso: mi chiedo se abbia trovato un po’ di pace.
Bisogna trovare le parole per colmare i silenzi dei figli, prima che i silenzi diventino urla. Le parole fatte anche di abbracci, di baci, di un contatto che purtroppo si è fatto più timido, più incerto e dubbioso: un balbettio senza fluidità. Sono qui con la sensazione di dover imparare tutti giorni una lingua che non conosco. Com’è andata a scuola oggi? Boh.