Il Figlio
La nonna che ti chiama “bastarda”, un trampolino per cambiare le cose
L'ultimo romanzo di Silvia Truzzi, Il cielo sbagliato, è un affresco speciale sul desiderio di emancipazione che si svolge tra le piazze e i palazzi di Mantova
In certi casi, vien da pensare, sarebbe meglio non avere una famiglia. Margherita muore partorendo nel 1918, nel giorno dell’armistizio della Grande guerra. Con lei c’è Regina, la madre zoppa (per via della poliomielite avuta da piccola) che è più fredda di quella baracca dove vivono con tre sedie, un tavolo e un camino senza cenere. “Sei ingrassata”, le disse poche settimane prima. “O qualcuno ti dà da mangiare e in cambio allarghi le gambe, oppure hai allargato le gambe una volta e ci sei rimasta. In ogni caso, sei una puttana”. Ce l’ha con lei da sempre, da quando è nata, perché avrebbe voluto un maschio. “Meglio nascere conigli”, le ripetevano in casa, “le figlie femmine non servono a niente”.
Sul volto di quella donna 56enne che ne dimostra quindici in più – rughe profonde, scolpite da miseria e durezza – c’è spazio solo per una bocca da cui escono parole al veleno, due occhi grigi privi di dolcezza che è una qualità assente persino nei suoi ricordi. Quando nasce la piccola Dora, quindi, figuriamoci. E’ “la bastarda” ancor prima di vederla e sentirla piangere, fare la nonna è impensabile e sbarazzarsene è necessario. A poche ore di distanza, sempre a Mantova, ma nell’imponente Palazzo Cavriani, un’altra giovane madre, non povera, e marchesa, partorisce anche lei una bimba dopo tre figli maschi. Vorrebbe chiamarla Elda, ma al marito piace Irene. “Va bene, caro, è un bel nome – gli risponde – è degna del nostro lignaggio, si distinguerà”. “Dopotutto, pensa, a me cosa importa?”. “E’ solo una femmina”, proprio come lei che è abituata a obbedire e a non dire mai niente.
“La prima rinuncia della sua nuova vita Irene la porta nel nome, impressa come un marchio”, scrive Silvia Truzzi, giornalista e scrittrice, in questo romanzo pubblicato da Longanesi come i precedenti Un Paese ci vuole e Fai piano quando torni. Il cielo sbagliato è il titolo, ma anche quello sotto cui nascono quelle due ragazzine così diverse – bella e determinata la prima, scialba e remissiva la seconda – che per un attimo ci ricordano Alfredo e Olmo del film Novecento. Due donne, due simboli, a loro volta, di tante altre nate senza voci e senza diritti, la cui unica aspirazione, ma – soprattutto – il dovere, era sposarsi e fare figli, passando così dal padre (o dal fratello) al marito. La vita, però, può cominciare quando meno te lo aspetti e una come Dora, crescendo, capisce che può farcela e cambiare le cose, o quantomeno provarci. Una famiglia diversa e alternativa si può sempre trovare e per lei ci sono Dino e tutti i Benedini, anche se la moglie di lui non la sopporta tanto. In questo affresco speciale sul desiderio di emancipazione, è Mantova – città natale dell’autrice – a fare da protagonista e da sfondo con i suoi palazzi e le sue piazze, con l’inaugurazione del monumento a Virgilio nel ’27 e l’arrivo, l’ascesa e la caduta del fascismo che vanno di pari passo con il cambiamento di Dora.
Bellissima come la sua città, si fa strada da sola anche quando ha l’illusione di essere aiutata; scopre – appassionandosene – il cinema dei telefoni bianchi che hanno lo stesso colore della neve che è fredda come la miseria e che conosce i suoi segreti, ben sapendo che lei, sotto i bei vestiti, “è solo una bastarda”. Fregarsene e andare avanti non perdendo mai l’istinto di sopravvivenza, è fondamentale. Tanto si sa che la felicità “è zoppa” come lo era sua nonna, che “tutte le gioie si pagano” e che il male è più invadente del bene”. Con l’esperienza e dopo non poche delusioni, capisce che “le persone che non fanno rumore non esistono”, e che solo così avranno diritto alle bambole, ai camini accesi, agli abbracci. I pericoli fanno parte della vita, ma a volte – le ricorda D’Annunzio, conosciuto durante una cena, il suo idolo dopo aver letto Il piacere e Il Fuoco, “i libri proibiti” – le cose pericolose sono le uniche per cui vale la pena di vivere, altrimenti che viviamo a fare? Illuminante.