(foto di Ansa)

il figlio

Il suono del dolore, un racconto

Isabella Borghese

La notte in cui ho creduto di perdere tutto, le campane della chiesa e il dolore di oggi, quello degli ucraini sotto le bombe

La sera, quando sono a casa, a distrarmi è il suono delle campane della chiesa del Santissimo Redentore. Mi ricorda della fede che mi accompagnava da bambina, e di una notte. Non era la prima in cui scappai di casa con furia. Raggiunsi il ponte delle Valli. Cercavo mio padre. Voglio morire, furono di nuovo le sue parole. Ricordo la corsa, la mia disperazione e una frattura che non si è mai più sanata. Ritrovai mio padre con lo sguardo fisso nel vuoto verso l’Aniene, vicino alle sterpaglie. Per un momento dentro quel vuoto ci perdemmo insieme. Accanto a noi una griglia di metallo. Non toccare i fili, c’era scritto sopra, pericolo di morte. Era dunque tutto lì il pericolo, in faccia, davanti ai miei occhi? Ricordare è un verbo che amo molto, come la nostalgia, il mio sentimento preferito. Ricordare con la sua etimologia, Richiamare in cuore, porta con sé quasi un dono, qualcosa che ci vuole accompagnare con grazia. Ciò che non ricordiamo è forse ciò che allontaniamo, che il nostro cuore espelle, perché non può avere posto per tutto. Seleziona, come il cervello. 

 

Di quei momenti oggi so che poi, con papà, rincasammo. Insieme? Forse sì, forse no. So che rimproverai Dio e lo accusai di infliggerci tanto dolore. Intanto, su quel ponte, nel vuoto che non conobbi davvero, avevo lasciato andar via quella fede senza mai più ritrovarla. Mai più. Così, mi affidai ai libri. Di essi mi fido. Nelle pagine c’è il mio Dio. Leggo Julian Barnes, “Non credo in Dio, però mi manca”, ammette. Io ho scelto i libri e un po’ sono restata la bambina di allora – che non capisce perché tutto questo dolore; perché non sarà utile, pensavo, come al contrario è scritto in quel libro da me tanto amato di Peter Cameron, diventato poi uno splendido film, invece ti trasformerà per sempre, mi convincevo. Ma ho imparato a leggere e a cercare le pagine sul dolore per non sfuggire a esso, perché Quando sono felice esco; perché solo conoscendolo, riconoscendolo e attraversandolo, il dolore lo si può elaborare. E’ parte della nostra vita. Vive con noi. So che proprio esso ci permette di cogliere ciò che viviamo fino in fondo.

 

Che il dolore è un posto che nessuno conosce finché non ci arriva, come ci racconta, invece, Joan Didion. Quando scendeva la sera, in quel periodo in cui il luogo della solitudine forzata era il mio dolore, e pure il posto da conoscere fino in fondo, mentre eravamo barricati nelle nostre case, durante il primo lockdown, con il coprifuoco alle porte, mi piaceva sentire quelle campane suonare. Non badavo a nulla, in quei momenti. Mi affacciavo alla finestra, senza poter nemmeno vedere la chiesa e in quegli attimi qualcosa, per me, si fermava per poi ricominciare. E’ un ricordo di quel tempo difficile che amo molto, un momento quasi miracoloso per la pace che mi infondeva. Come accade con la forza di un abbraccio. 

 

In queste settimane quando accendo la tv ascolto e guardo e mi soffermo e leggo i giornali e provo a capire e a farlo meglio. I colpi di mortaio, i morti, i feriti, le bottiglie di birra vuote da riempire perché diventino bombe molotov, i volti stremati di chi è in guerra e non sapeva neanche di doverla fare, la resistenza ucraina. Yelena Osipova. Paulina morta a soli otto anni. Alice a sei. Altri bambini uccisi. Come ti chiami tu, piccolino, morto a pochi mesi in ospedale, dopo lo scoppio di una bomba? Un’altra bambina impugna un kalashnikov, ma è scarico e ha in bocca un lecca lecca. Una foto scattata dal padre per richiamare l’attenzione di tutti e di tutte. Vedo donne indaffarate a costruire reti mimetiche. Donne e uomini anziani tra le braccia di militari che li aiutano ad attraversare un fiume, ché il ponte è saltato a causa di una bomba. Un razzo con bombe a grappolo ha colpito un asilo nella città di Okhtyrka. Macerie di case e palazzi interi, di piazze, come di strade e di parchi… Immagini che si sovrappongono. Una è nitida, oggi: mio padre da quel ricordo lungo oltre trent’anni è ancora in vita, è un dolore che ho conosciuto, riconosciuto e attraversato. D’improvviso, qualcosa stasera mi distrae. Non sono le campane: è la bambina che canta Let it go. La sua voce che arriva da dentro un bunker. La guerra è un dolore che non conosco. 

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