il figlio
Album di famiglia
Cinquant’anni di storia non in posa. Le fotografie di Alberto di Lenardo
Il fascino che le vecchie foto esercitano su di noi è estetico, antropologico, ma soprattutto emotivo. Le fotografie di Alberto Di Lenardo, in mostra fino all’8 maggio nello spazio WeGil di Trastevere a Roma, sono le immagini ingiallite dei nostri album di famiglia, le vacanze dei nostri nonni senza pollici molesti a ingombrare l’inquadratura. Alberto di Lenardo (1930-2018), friuliano, produceva vino. Ma da quando ha 19 anni non si separa dalla sua Pentax, e fotografa ogni momento della sua vita, con l’unica ambizione di costruire un personale archivio sentimentale.
Un giorno del 2013 poi, durante un pranzo nella casa di famiglia a Udine, invita la nipote Carlotta in soffitta per mostrarle una foto del padre da piccolo. A Carlotta si apre un archivio fotografico di più di dodicimila scatti che attraversano la vita del nonno, della sua famiglia e, involontariamente, cinquant’anni di colorata e gioiosa borghesia. Un patrimonio documentario di storie e di storia che usciva dalla soffitta solo durante le lunghe proiezioni di diapositive a cui Di Lenardo costringeva la famiglia, che lo sopportava più per affetto che per vero interesse. Invece Carlotta, grazie a quei momenti, costruisce un rapporto esclusivo con lui e con la fotografia. Oggi ha 28 anni, fa la foto editor e da dieci cura l’archivio di Di Lenardo, che ha reso pubblico nel profilo Instagram @grandpa_journey, nel libro An Attic Full of Trains, (MACK Books, 2020), e nella mostra al WeGil, nata con l’idea di conservare la natura di archivio personale e parallelamente farne emergere il linguaggio autoriale. Qui le foto sono un’immersione nei viaggi e nella quotidianità di Di Lenardo, memoria di scampagnate, bagni al mare e gite in tram, registrate con dolcezza e umorismo.
Un lessico famigliare riscritto dal lavoro editoriale di Carlotta in un carillon di volti sconosciuti e panorami noti che si incontrano oltre il tempo e lo spazio, come la turista con la visiera da bridge a San Francisco che dialoga con le donne al minigolf di Lignano Sabbiadoro. La cornice la dà sempre Di Lenardo, con didascalie che localizzano i momenti nella sua geografia personale, o ritraendo i suoi soggetti da vere cornici: dall’abitacolo di un’auto, una grotta o un arco, i piani visivi si intersecano quasi a legittimare la stratificazione dei ricordi, la vita che brulica fuori campo. Le inquadrature sono inaspettate e divertenti perché per raccontare la vita non si può stare in posa, non si può essere solenni. Della ragazza sulla neve incastrata nel maglione che si sta sfilando ci chiediamo che volto abbia, dei bagnanti affacciati sulla balaustra cosa guardino, ma ne vediamo solo il fondoschiena.
Lirismo d’artista e senso pratico d’imprenditore — aveva digitalizzato e ordinato in un drive tutti i suoi ricordi e si era disfatto delle diapositive, “occupavano spazio”—, Di Lenardo fotografava per comunicare i sentimenti che non riusciva a esprimere a parole. “Era un uomo austero, formale. Giacca e cravatta”, racconta Carlotta, “Non diceva ‘ti amo’ alla nonna, ma lei vedeva le sue foto e capiva come la guardava”. A Maria Pia Rossaldi, compagna di una vita, è dedicata un’intera serie, nella sezione della mostra che ha protagoniste le sue ossessioni. Poi ci sono i lunapark, le strade, le donne, gli oblò, gli amici addormentati al sole. Nei suoi scatti emerge un modo di stare al mondo. Come nel dittico di una coppia che vediamo prima e dopo un brindisi, i soggetti delle sue foto sono sospesi nei tempi vuoti di un’età dell’oro ottimista dove c’è ancora spazio per la noia. E il voyeurismo per questa borghesia scanzonata e vacanziera, nostalgico di una fiducia che non conosciamo più, insomma questa nostra passione per il vintage è liberata dal romanticismo stantio e tradotta nell’ecologia di un immaginario comune. La pagina si fa letteratura e la memoria arte.