il figlio
Madre e figlia, accudirsi e odiarsi. Amarsi. Zucchero bruciato e favoloso mistero
Il libro Avni Doshi racconta la storia di Tara e Antara, legate dal sangue ma incapaci di odiarsi, di farsi reciprocamente del male.
Vedere il mondo con occhi altrui è il sogno di una vita. A maggior ragione, è così per l’uomo di fronte a un silenzio tra madre e figlia, quel castello kafkiano su cui non si esprimono opinioni per paura di violare regole ignote. I romanzi provano a infrangere l’impenetrabilità. Con Zucchero bruciato (traduzione di Francesca Martucci, Editrice Nord) Avni Doshi ha fatto di più.
Dopo aver letto della relazione brutale, incensurata tra una madre incapace di amare e una figlia in attesa di un riconoscimento, non si vede l’ora di tornare nei soliti occhi, di rientrare nel proprio corpo. Tale è l’efficacia dell’autrice nel comunicare il senso fisiologico della maternità e dell’essere figlia. Il libro trasmette un paesaggio straniero. Sì, si svolge in India, la madre si chiama Tara e la figlia Antara, odori, monsoni, vestiti sono quelli; ma alieno è il prezzo di essere madre o figlia, di partorire ed essere partorite, un amore pagato con il corpo. Il tutto è reso da Avni Doshi – finalista al Booker 2020 con questa trama in parte autobiografica – in modo così esplicito e non esibizionistico da apparire il destino di ogni donna con discendenza femminile. In breve: “Una follia necessaria, senza la quale la specie potrebbe non riprodursi mai più”.
Ma la relazione tra Tara e Antara (l’anti-Tara, così chiamata perché non ripeta errori) illumina un secondo arcano: l’ingiustizia che domina ogni rapporto. Se capire la gente è impossibile, pretendere che tra due persone pur legate dal sangue i conti tornino, il tempo permetta un riequilibrio, è illusione amara. Tara è una madre cattiva. Per sfuggire a un matrimonio che le pesa, scappa con la figlia di tre anni in un ashram a Pune, dominato da Baba, un guru, un dio, un gigante in parte ispirato a Osho. Lui sequestra la madre per farne l’amante. La bambina è abbandonata tra sporcizia e promiscuità e madri vestali; si graffia, non dorme, non mangia. Quando, dopo quattro anni, lasciano l’ashram, è per fare, senza bisogno, le mendicanti. Antara è poi spedita in collegio, dove la trattano in modo disumano.
Sono trascorsi vent’anni da quell’infanzia crudele: Antara è un’artista trentenne sposata con Dilip, gentile ma incapace di aiutare. La madre da cattiva è diventata malata: la demenza la divora, la figlia la tiene vicino e se ne prende cura; però vorrebbe che lei, dopo l’eterna fuga, fosse una donna con cui fare i conti. E’ ora di punirla per gli errori, pur amandola. Ma il pareggio è impossibile: il cervello guastato dalla placca amiloide cambia la personalità della madre, lei non è più in quel corpo che la tormentava. La demenza è un’offesa per la rivalsa della figlia: teme che la madre stia inventando tutto, inclusi i comportamenti assurdi: non riconosce i volti, telefona ai morti, brucia i disegni della figlia. Tara l’accudisce odiandola. “Mentirei se dicessi di non aver mai gioito dell’infelicità di mia madre”: è l’incipit e una promessa, anche la figlia creata da Avni Doshi sarà reale e malvagia quanto basta.
Dopo che la madre era stata abbandonata da un grande amore, un giovane artista, la figlia era stata segretamente con lui per anni. E’ crudele se ora ingozza la madre di zucchero sapendo che le fa male? La bambina buona è diventata la figlia cattiva o è giustificata, se la madre s’appropria della nipote. Un bambino che disfa la donna che l’ha partorito – e flirta con il marito? Dopo quanto le ha fatto da piccola, può gridarle: “Ho sempre pensato che mi avresti rovinato la vita”? Sì: il destino non riconosce limiti alla sofferenza. La figlia: “Le voglio bene da morire… Se solo la smettesse di comportarsi da troia la rimetterei in carreggiata”. Madri e figlie sembrano intuire qualcosa di orribile e favoloso ma resistono alla tentazione di caderci, portandoci con loro.