(foto di freestocks su Unsplash)

il figlio

Non voglio partorire, ma non significa che non voglio diventare madre 

Francesca Cavallo

Parte della sfida del nostro tempo è ridefinire il concetto della genitorialità oltre la questione genetica. Una storia 

Ho assistito al parto di entrambi i miei nipoti, Olivia ed Emilio. Sono nati in Australia, e io c’ero durante il travaglio, c’ero quando Olivia stava per uscire dalla pancia di mia sorella. Sono stata la prima ad accorgersi che aveva i capelli ricci. C’ero quando Emilio non riusciva a venire fuori, e l’ostetrico ha fatto un tentativo estremo di girarlo, dopo ore lunghissime ed eterne. Veder venire al mondo i miei nipoti ha reso la mia vita degna di essere vissuta. Mentre accompagnavo mia sorella nelle ore del travaglio, mentre la vedevo forte e coraggiosa, mi sono chiesta come mi avrebbe fatto sentire vedere la mia compagna dare alla luce nostra figlia.

 

Essere io a dare alla luce un bambino non è mai stata un’opzione. Non perché abbia problemi di salute, non sono fisicamente impossibilitata ad avere una gravidanza. Immaginarmi incinta mi ha sempre generato una sensazione di profondissima estraneità. Non ho alcun problema con il corpo delle donne in gravidanza, anzi. Mi è capitato di commuovermi immaginando la pancia gonfia di vita della mia compagna. Mi è capitato di accarezzare l’addome piatto della donna che amavo, e di sentire nelle mie carezze farsi strada il desiderio di mettere al mondo qualcuno che testimoniasse la capacità sorprendente del nostro amore di generare un respiro.

 

Proverei una forma di venerazione per il corpo incinta della donna che amo. Assistere al parto della mia compagna non diminuirebbe il mio desiderio per lei, ma lo farebbe crescere anzi a dismisura. Eppure, l’idea di vedere il mio seno ingrossarsi, i miei fianchi allargarsi, la mia pancia crescere, mi fa orrore. Per donne come me non c’è spazio nel racconto della maternità. Se sei una donna, e desideri un figlio, questo vuol dire una cosa sola: che vuoi provare l’esperienza di una gravidanza.

 

Eppure, so di non essere l’unica. Desiderare di essere madre, e desiderare una gravidanza sono cose diverse che non necessariamente coincidono. E’ vero per tantissime donne, eterosessuali, omosessuali o transgender: ma non si racconta, perché la paura di essere giudicate madri “snaturate” (la peggiore accusa che si possa rivolgere a una donna) è troppo profonda.
 

Io ho imparato che la sensazione di rigetto che provo all’idea di vedere il mio corpo trasformarsi per una gravidanza si chiama “disforia di genere”. Pur essendo nata con una vulva, un utero, due ovaie, infatti, non ho mai sentito che l’etichetta “donna” esprimesse al cento per cento chi sono. La mia identità di genere fluttua tra i poli che ci siamo abituati a chiamare “maschio” e “femmina”. In questa linea immaginaria, ogni giorno mi colloco in un punto leggermente diverso e, per sentirmi me stessa, ho bisogno che il mio corpo non mi ancori troppo saldamente a uno dei due generi, perché l’idea che questo accada mi fa sentire in prigione.

 

Motivi per voler essere madri senza desiderare una gravidanza, però, ce ne possono essere tanti altri. Parte della sfida del nostro tempo è ridefinire molte delle idee  su cosa voglia dire essere genitori: accompagnare nel mondo bambini che possono o meno essere legati a noi dal sangue. Non è il Dna che rende tale un genitore, non è il Dna che ci fa sentire figli. L’ossessione di ridurre la genitorialità a una questione genetica ha un impatto fortemente negativo prima di tutto sui bambini. Non è il controllo ossessivo delle modalità di riproduzione a garantire il loro benessere, ma l’investimento perché quanti più bambini possibile nascano da genitori che sono autenticamente e giosamente se stessi. In una parola, liberi.

 

Francesca Cavallo
in libreria con “Ho un fuoco nel cassetto” (Salani)

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