Il figlio
Un genitore che si distrae dal proprio bambino sta andando via da sé stesso
C’è una demonizzazione assoluta nei confronti dei padri e delle madri che perdono le redini della vigilanza dei figli. Ma le distrazioni segnalano l’incapacità di sostenere una relazione con una parte di sé, non con i propri figli
C’è una demonizzazione assoluta nei confronti dei genitori che perdono le redini della vigilanza. L’opinione pubblica si indigna di fronte a un figlio sfuggito al controllo della madre o del padre. Eppure basta un solo istante di disattenzione perché un bambino cada, si faccia male o peggio ancora si perda. Un battito di ciglia può essere fatale. Le distrazioni avvengono in particolar modo in quei momenti in cui siamo sotto assedio, privati dal sonno, oppure nei periodi in cui la routine s’impone tanto da farci desiderare di evadere, fuggire con il pensiero. Coincide esattamente con i primi due anni di vita del bambino – quando non dormiamo per giorni e facciamo sempre gli stessi gesti: pannolino, pappa, nanna. Ma il corpo umano è miracolosamente perfetto.
Il cervello delle donne cambia forma durante la gravidanza, la materia grigia si assottiglia fino ai due anni del post partum, l’attenzione al sociale si annulla, cala integramente il desiderio verso gli altri, verso l’esterno. La madre diventa una creatura infallibile, programmata per concentrare tutte le sue attenzioni sul piccolo. Eccola che spinge la carrozzina, oppure seduta al parco, la vedete? Tutto intorno a lei è un mondo nebuloso, la sua attenzione è esclusivamente concentrata sul suo bambino. Ma per quanto ancora? Ventiquattro mesi, che coincidono con il momento in cui un piccolo si mette sulle gambe e definisce i contorni del mondo: spazia con una sua piccola autonomia. Non rischia di picchiare sul bordo, di ingoiare un sasso… anche se potrebbe tranquillamente lanciarsi nel vuoto.
Eppure il tempo in cui la madre è integralmente sintonizzata sul figlio, si esaurisce. La madre torna a essere una donna “normale”, il suo raggio si espande di nuovo e il bambino resta a fuoco in mezzo a un miliardo di altri stimoli. Un punto illuminato attorno a un campo che torna fotosensibile. Nel 2010 Gene Weingarten ha vinto il premio Pulitzer con un lungo reportage che raccontava le storie di genitori che avevano dimenticato i bambini in macchina. Persone sane e “normali” – genitori solitamente attenti e premurosi – vittime di un’occasionale distrazione. In un percorso sempre uguale, una piccola scheggia incrina la routine, la mente cortocircuita e immagina una cosa compiuta. Aver portato il piccolo a scuola, per esempio. Immaginare di averlo fatto scendere dalla macchina, come ogni giorno. Invece no. Invece il bambino è rimasto chiuso in macchina, un atto mancato, un gesto enorme sfuggito alla madre, al padre. Sono imputabili di reato? Molte di queste persone sono state assolte, anche se hanno commesso il più inimmaginabile dei crimini: uccidere il proprio bambino.
Le distrazioni in psicanalisi segnalano l’incapacità di sostenere una relazione con una parte di sé, cortocircuiti veri e propri in cui ci si sottrae dalla realtà circostante. Significa fuggirsi, mancarsi. Dunque un genitore non si distrae dal proprio bambino, sta integralmente andando via da sé stesso. Inoltre i nostri tempi non aiutano. Poiché esistono due tipi di distrazioni, quelle interne e quelle esterne, e le seconde sono in agguato. Veniamo bombardati da stimoli che trascinano la nostra attenzione altrove: una costellazione di bip ci chiede di andare via da quello che stiamo facendo. La chat, il like, la news, cosa sono? Richiami, alternative all’attimo vissuto, cantano come le sirene di Ulisse. E’ difficile vivere in due mondi paralleli, quello virtuale e quello reale, timbrare il cartellino a tutte le ore e starci sempre con la testa. Non è questione di vigilare, di essere concentrati, è un operazione inconscia più complessa, significa rimanere adesivi a sé stessi, mentre questo secolo ci spinge a fuggire via dall’attimo che stiamo vivendo.