il figlio
Elvira dei miracoli: la distanza e la maternità
Un libro di Flavia Amabile, edito da Stile Libero, racconta il dramma della prima regista italiana, madre, che per la sua vocazione rinunciò a una figlia
Madri, figli. Madri, figli, lavoro. Donne. La maternità è il nuovo grande tema del millennio: sembra un’iperbole, perché la maternità è un grande tema della vita, e lo è da sempre. Eppure è vero, perché si sono moltiplicati i punti di vista da cui ragionare della maternità. Natalia Ginzburg scriveva: “Esiste fra le madri e i figli un rapporto di una qualità particolare, segreto e sotterraneo, un rapporto a cui non si sfugge perché attraversa e confonde insieme le vie delle viscere e le vie dello spirito”. Siamo abituati a pensare alla maternità come visceralità, corpo dentro a un altro corpo, vita che s’innesta alla vita, che la sdoppia, la divide e poi la potenzia; in certi casi, la confonde.
Molte scrittrici contemporanee si sono interrogate in modo dialettico su questa visceralità. Sheli Heti in Maternità ha messo in scena un dubbio (faccio un figlio o non lo faccio; a quanto devo rinunciare se lo faccio?); Guadalupe Nettel nella Figlia unica ha mostrato come la maternità possa essere connessa alla malattia, alla debolezza, all’isolamento; Rachel Cusk nel Lavoro di una vita ci ha mostrato le contraddizioni di una madre. Questo interrogarsi dialettico sul materno ha fatto emergere una verità: la maternità non è così naturale. C’è un dato biologico, certo: ma ce ne è uno psicologico più complesso che va analizzato.
Elvira, nuovo romanzo di Flavia Amabile (Stile libero), si inserisce in questo interrogarsi, anche se la protagonista è una donna degli inizi del Novecento, che sembra lontana dall’idea dell’autodeterminazione; non lo è. Il libro è la storia di una fascinazione; dell’incanto per il primo cinema: immagini in movimento che sembrano un prodigio e in fondo lo sono: l’uomo ha trovato il modo di ricreare la realtà. Ma forse anche le donne ne sono capaci, di vita che germoglia dal nulla ne sanno qualcosa da sempre. Così Elvira Coda Notari divenne la prima regista italiana, scomparsa poi nell’oblio, complice la censura fascista e la sua avversione a ogni forma di protagonismo. Aveva cominciato a colorare le pellicole e poi a sentire il fascino della macchina da presa. Elvira raccontata da Amabile è una donna volitiva, intelligente, libera. Una donna contemporanea anche nei quesiti: dove si inizia a essere madri? Senza dare per scontato il percorso di chi dà alla luce dei figli, senza sentirsi capace per natura e per cultura. Ne avrà tre, di figli; ma una la affiderà alle suore della Madre di Dio. Sarà la ferita insanabile della sua vita, quella che poi si mangerà tutto: le gioie del successo di una donna che lavorava quando le donne non osavano essere ambiziose.
Molte autrici si pongono domande sulla distanza che ogni madre dovrebbe mettere tra sé e i figli senza che quella distanza diventi distacco. Carole Fives, giovane autrice francese, ha scritto qualche anno fa Fino all’alba. Una donna di notte scappa dal suo bambino, lo lascia a casa da solo anche se ha solo due anni. Cammina, va sempre più lontano. Mettere distanza per trovare la prospettiva, per capire cosa fare dopo due anni di corpo a corpo senza asilo nido, senza aiuto, senza comprensione.
Elvira rinuncerà a una figlia: la distanza è diventata distacco. Non è riuscita a inserire la terza figlia nel proprio percorso identitario. Percorso che si nutre di maternità, ma anche di molto altro. Amabile scrive non per dare soluzioni, ma per suscitare quesiti. Nulla è inconciliabile, avrebbe detto Natalia Ginzburg. Ognuno di noi, figlio o madre che sia, ha diritto a trovare la sua vocazione e a seguirla in un tempo libero e svincolato; in un luogo dove si è solo sé stessi davanti alle passioni, al di là dei legami famigliari. La vocazione come luogo di libertà dove metterci a fuoco, diventare persone migliori. Dunque anche madri migliori. Elvira avrebbe dovuto saperlo, ma era ancora troppo presto.