il figlio
La storia di una famiglia dispiegata come una fiaba narrata dalle pietre
Nel mondo che cerca il record e il primato e la performance può esserci posto e pietà per un debole? La famiglia diventa allora la vetrina di reazioni possibili, insieme la culla, la tomba, la festa, la rabbia
"Avevano costruito quelle due case, poi il tetto sporgente, il forno a legna, la macelleria e il mulino, da una parte e dall’altra del fiume, e si potevano sentire i sospiri di sollievo dentro le auto quando la strada stretta diventava un piccolo ponte e appariva la terrazza della prima casa che dava sull’acqua. Dietro, simmetrica, c’era l’altra casa, dov’era nato il bambino”.
L’arrivo dentro questo romanzo (Clara Dupont-Monod, Adattarsi, Edizioni Clichy, traduzione di Tommaso Gurrieri) si svolge piano, tornanti dolci che portano alla casa cuore della vicenda. La strada è semplice e la casa è semplice. La vicenda intera, in effetti, è senza tuoni e fulmini. Nessun effetto speciale. La storia di una famiglia. Anzi la storia di un bambino dentro una famiglia.
“Sembrava attento e tranquillo. Aveva le guance rotonde e pallide, i capelli castani, dei grandi occhi scuri. Un neonato della zona, e che a quella zona apparteneva. Le montagne sembravano matrone che vegliavano su di lui, con i piedi nei fiumi e il corpo ricoperto di vento. Il bambino era accettato, come gli altri. Qui i neonati avevano gli occhi scuri, i vecchi erano magri e asciutti. Tutto rientrava nell’ordine”.
La storia di una famiglia dispiegata con il passo di una fiaba. Ci aspettiamo da un momento l’altro che debba insegnarci qualcosa, invece ci mostra solamente quel che succede, attraverso la voce narrante delle pietre, uniche testimoni immobili e privilegiate del tempo e dell’uomo. Temono solo il vento forte che le erode e le spazza via.
“Dopo tre mesi ci si accorse che il bambino non diceva niente”.
Il problema quindi esiste, il bambino è inadatto. E bisognerà fare i conti con lui. A questo punto il romanzo sceglie tre risposte. Quella del fratello maggiore, quella della sorella minore, e quella dell’ultimo arrivato.
Tutti fanno i conti con loro stessi di fronte a una creatura offesa, e devono gestire il mondo di fuori.
“La fragilità genera la brutalità, come se il vivente volesse punire chi non lo è abbastanza”.
Nel mondo che cerca il record e il primato e la performance può esserci posto e pietà per un debole? La famiglia diventa allora la vetrina di reazioni possibili, insieme la culla, la tomba, la festa, la rabbia.
“Di notte, nella corte, la madre si asciugava gli occhi e poi accendeva una sigaretta. Il padre le portava una tisana alla verbena, si fermava, andava a cercare una bottiglia di vino. Un figlio diverso è una prova molto difficile. La maggior parte delle coppie si separa”.
La scelta dell’autrice Clara Dupont-Monod è quella di porre i genitori sempre sullo sfondo, le pietre narranti sembrano usare il vocabolario sentimentale dei figli con molta più disinvoltura. Sono loro che osservano e interrogano. Sono loro che inseguono e controllano. Nei loro tic, nel loro cambiare di fronte a un bambino immobile e malato, uno sgorbio inerte, un niente che a malapena respira e su cui si chinano a turno per sussurrare parole d’amore, o bestemmie.
“Lei ormai sapeva che un legame può avere forme diverse. La guerra è un legame. Anche il dolore”.
L’intera vita umana come una ricerca di sospiri di sollievo. Di tregua, termine specifico molto sentito da chi ha a che fare con le creature sfortunate.
Il grande successo di questo romanzo, prima in Francia e ora nel mondo intero, ha ragioni semplici come ciottoli saggi. Le incursioni nel mondo di fuori sono poche. Uno sguardo malvagio, qualche sigaretta, la scuola, le suore, gli amici. Banali direzioni che conosciamo tutti. Sono tappezzeria però, il centro è altrove e forse non sta nemmeno dentro il tinello di quella famiglia. La natura non minaccia, contiene. E’ uno dei significati possibili. Adattarsi. Respirare. Cercare un centro che sia degno e compassionevole. La capacità di sorridere dopo avere pianto, appoggiare la testa su una spalla, e accettarne una sulla propria. Il giudizio è lo sguardo degli esseri umani.