Clarice Lispector, la promessa dell'infanzia e dell'adolescenza
"Il lampadario" procede con l’andamento capriccioso di quell’età, al confine tra sogno e risveglio
Virgínia: “Si alzava, si infilava il vestito corto, sollevava le alte finestre della sua camera, la nebbia penetrava lenta e compatta; lei ci tuffava la testa, il viso dolce come quello di un animale che mangia dalla mano”. Poi Daniel, il fratello poco più grande: “Un ragazzino strano, sensibile e orgoglioso. Gli occhi limpidi e asciutti, viveva con Virgínia a Granja Quieta come se fossero soli. Dall’istante in cui era nata aveva preso sua sorella per sé e segretamente lei era solo sua”. Se ci s’interroga – perché dimenticata, negata, non vissuta – in cosa consista quella stagione enigmatica, fluttuante dell’esistenza prima che questa diventi soltanto realtà e per sempre; o dove possa arrivare l’intimità sottosopra di due fratellini che si amano senza conoscere l’amore, c’è una risposta di tale suggestione da rimescolare la memoria della vita di chi legge. Al confine tra sogno e risveglio, è in un romanzo che procede con l’andamento capriccioso di quell’età: Il lampadario, il secondo di Clarice Lispector (traduzione di Virginia Caporali e Roberto Francavilla, Adelphi). Pubblicato nel 1946, si pone a metà percorso e alla pari con altri due onirici romanzi di formazione e molto di più, Il grande Meaulnes di Alain-Fournier (del ’13) e Ada o ardore di Nabokov (del ’69). Curiosità: il termine ardore compare sedici volte.
La tenuta familiare di Granja Quieta, il fiume denso e l’identico scorrere dei giorni che ignora il calendario, sono il teatro delle avventure a perdifiato di Daniel e Virgínia, con la loro Società segreta creata nel bosco, un’Antiterra nabokoviana e più che maliziosa, governata dall’obbligo di vivere secondo due regole: solitudine e verità assolute. Due muri eretti da questi ragazzini “magrolini, capelluti, gli occhi persino belli” per escludere la famiglia, non provare rispetto per il padre, né compassione per Esmeralda, la sorella grande e macchiata per sempre da una precoce debolezza sentimentale; per non essere obbligati a rallegrarsi dell’allegria altrui, quando il padre torna dal lavoro per sedersi a tavola.
La promessa dell’infanzia e dell’adolescenza poi, è consumata sull’istante, con giorni che non potrebbero sfolgorare di più se non distruggendosi; vissuta nella celebrazione dei corpi difficili, nell’obbedienza “ardente” al fratello. “Si guardarono per un istante ed era tutto indeciso, fragile, così nuovo e nascente”. Per questo Virgínia “si faceva pallida e vertiginosa e lo amava quanto mai sarebbe stata in grado di amare”. Con una promessa tale, quanto sarà crudele e futile, per lei e Daniel, crescere, trasferirsi in una città vicina per studiare e amare, sperando di consegnarsi alla forza di un altro destino. Nessuna passione, né una moglie per Daniel, né gli amanti per Virgínia, né società o legami potranno mai sostituirsi a quella dolcezza originale e senza nome. “Com’era incompleto vivere!”. Per entrambi la città, priva di quei fantasmi familiari e custoditi nella tenuta assediata da un tempo non più loro, diviene improponibile; è alienante, priva di quel lampadario sul quale Virgínia posava gli occhi da bambina, affascinata dal bagliore in cui immaginava la brillantezza del futuro. Per entrambi il ritorno a Granja Quieta è inevitabile. Anche soltanto per vedersi di nuovo prigionieri del fratello e fissarsi, estranei e ancora complici di quell’età alle spalle e di cui restano brevi domande terribili. “Felice?”. “Lo sai, è sempre la stessa storia, non potrei essere più felice di quel che sono, non potrei essere più infelice di quel che sono”.
Se Il lampadario è il tormentoso, tenero ritratto di due fratelli inseparabili, per Virgínia è anche la descrizione del sacrificio di quel suo trasporto d’amore “svanito senza sfiorare la memoria di nessun uomo sulla terra… Soltanto lei lo avrebbe conservato come un punto violento, una stella calda e bianca al centro del corpo”. Come lei, restiamo allibiti davanti alla caduta del sentimento dove non è più raggiungibile. Scritto a Napoli nel 1944 mentre curava i feriti di guerra brasiliani, ha pieno diritto di diventare il più amato romanzo di Clarice Lispector. Il suo smisurato talento non è qui al servizio del carattere, del bisogno ossessivo di parlare di sé.