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la recensione

L'opera ribaltabile, il doppio memoir di Aleksandar Hemon

Francesca Pellas

Lo scrittore che si è inventato un'altra lingua, un nuovo inglese, che ha vissuto due vite, una nei Balcani, nella ex Jugoslavia, e una negli Stati Uniti, torna con un nuovo libro che presenterà a Mantova

Immaginare i propri genitori da giovani non è un esercizio facile: non bastano i racconti, le fotografie. Non si può fare, senza prima accettare l’idea che anche i genitori sono persone. Chi ce l’aveva detto? Voi lo sapevate? Forse quella consapevolezza arriva quando siamo già adulti. Perché prima i nostri genitori sono solo i nostri genitori. E solo più avanti, con uno sforzo mentale non da poco, riusciamo a pensarli ragazzi. Giovani. Innamorati. Bambini. Vivi da prima. Senza di noi.

 

Questo fa Aleksandar Hemon nel suo ultimo libro, appena uscito per Crocetti (lo presenterà domani, sabato 10 settembre, al Festivaletteratura di Mantova), un memoir doppio e ribaltabile, nel senso che si può leggere sia da una parte sia dall’altra ed è un volume che ne contiene due. Il primo s’intitola appunto I miei genitori. Il secondo, Tutto questo non ti appartiene, è una raccolta sotto forma di frammenti di piccole memorie dell’infanzia e gioventù dell’autore: i giochi, i momenti con la sorella, pensieri sparsi (“Immaginate, allora, vi prego, come semplice ipotesi, che ci sia nella nostra anima un blocco di cera”), il suo primo amore.

 

Ma poi, girando il libro per l’altro verso, ecco che comincia I miei genitori. Per chi non la conosce, la storia di Hemon è iniziata due volte, una a Sarajevo e la seconda a Chicago: a Sarajevo è nato, nel 1964, e negli Stati Uniti è andato per motivi di studio nel 1992, senza poter poi tornare a casa. Nel frattempo era scoppiata la guerra nei Balcani, e la Jugoslavia non esisteva più: il suo passaporto era carta straccia. Così Hemon rimase in Nord America e poco dopo fu raggiunto dalla famiglia (i suoi genitori emigrarono in Canada nel 1993 e lì risiedono tuttora, allevando api e producendo miele).

 

A Chicago la ventosa (sorge su un lago grande come un mare e vi soffia molto vento, a volte anche a trenta gradi sotto zero come cantava Battiato in Prospettiva Nevski) intanto, Aleksandar detto Sasha si è costruito una seconda vita scrivendo. A ventotto anni è stato in grado di cambiare la lingua della sua scrittura, cominciando a scrivere narrativa in inglese. Chiunque scriva lo sa, che tutto questo è quasi un potere da supereroe. In anni recenti l’ha fatto Jhumpa Lahiri, ma gli esempi non sono molti, a meno non si cambi paese da giovanissimi, e non è il caso di nessuno dei due. Del resto, si chiama lingua madre: la lingua è, essa stessa, una madre. 

 

Di Hemon si dice spesso che ha inventato una lingua nuova: un inglese terso, elegante, sferzante come il vento di Chicago. Unico. Da straniero, ha fatto prendere al suo nuovo idioma una nuova direzione, infilandoci immagini e bottoni che prima, nell’inglese senza di lui, non esistevano. Chissà se dentro i suoi antenati arrivati nei Balcani dalla Galizia, nell’odierna Ucraina, quel germe di rivoluzione era già presente, addormentato in attesa di trovare Sasha.

 

Oriana Fallaci direbbe senz’altro di sì. Lo spiegava in Un cappello pieno di ciliege, il romanzo pubblicato postumo a cui si mise a lavorare quando scoprì di essere malata: “Ora che il futuro s'era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l'inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza”. E il passato della nostra esistenza sono i nostri antenati, che sono noi prima di noi: è in loro che siamo già contenuti prima di esistere, a livello di ipotesi.

 

Ipotesi perché, come insegna Oriana, se anche uno solo degli anelli della catena che conduce fino a noi non fosse esistito, o non avesse incontrato proprio quell’anello, e insomma se tutta una fitta rete di combinazioni casuali non fosse andata com’è andata, noi non saremmo (riassumendo molto e senza citare la catena tutta) i figli dei nostri genitori. Non saremmo noi. Al nostro posto ci sarebbe un’altra persona, ma chissà chi.