il lutto sospeso
Il diario degli altri di fronte al Covid della lontananza. Noi vivi isolati dai morti
C'è chi è rimasto dopo che la pandemia gli ha portato per sempre via una persona cara. La morte è avvenuta senza poterla vedere o piangere, una sofferenza inedita che merita attenzione. Un libro
Esiste un dolore che frantuma più degli altri. Segnato dal peso della lontananza, discriminato dall’impossibilità del commiato. Non c’è stato il tempo né il modo per dirsi addio. D’un tratto sono decaduti i riti di passaggio: accompagnare la salma con un fiore, assistere ai funerali, posare una preghiera sulla tomba. È questa la storia della pandemia. La tragedia collettiva che abbiamo respirato. Un trauma profondo che ci ha segnato tutti quanti, tutti insieme. Da qui l’idea di scrivere Lo strappo sospeso (Tab Edizioni 2022) un libro che ripercorre il tempo che è stato nella sua parte più dolorosa e indicibile: il lutto da Covid. Provando a chiedersi in che modo si può superarlo.
Siamo di fronte a una sofferenza inedita che merita attenzione, che va affrontata anziché rimossa, come verrebbe spontaneo alla natura umana ora che il frastuono dell’epidemia è più lontano. Le barelle, i pazienti e i “marziani”. Ambulanze che si allontanano. Istantanee di porte che si chiudono per sempre. Dolori spessi comunicati brevemente al telefono. I morti isolati dai vivi e viceversa. Un canovaccio che in Italia si è ripetuto per oltre 170mila volte, tanti sono stati i caduti del Covid nel nostro paese. Oggi i sopravvissuti meritano l’attenzione che nessuno pensa di donare loro. Nessuno ne parla. Sono degli invisibili del lutto strappati agli affetti.
Questo libro è un viaggio senza censure nelle loro esistenze, nel “dopo” della loro comune esperienza. Un diario d’altri che racconta un po’ di tutti noi. Perché la perdita di una persona cara non è solo un fatto privato, è un affare di famiglia e di comunità.
Da ognuna delle testimonianze raccolte affiora un sentimento. Il senso di colpa descritto da Tina per aver contagiato il marito, la rabbia di Gianluca per non aver salutato il padre, l’incredulità di Giuseppe che considera il fratello uno scomparso del virus. Trovano casa una lettera scritta dagli studenti al professore che non tornerà alla cattedra, una piuma bianca che Mery considera un segno, l’esperienza di mutuo aiuto di un gruppo di vedove del Covid. E poi le voci di medici, infermieri, sacerdoti. Presenze che hanno coperto l’assenza drammatica dei congiunti. È spettato a loro il compito di esserci per chi non poteva. Ogni cicatrice richiede cura. Ecco che la parola diventa un analgesico. Non resta che provare a ricostruirci medicando il trauma. Per questo ognuna delle storie narrate è affiancata da una riflessione resa attraverso l’esperienza di chi s’intende di psicologia, sociologia, antropologia, tanatologia, stimolato a disegnare le possibili coordinate per rinascere, a suggerire binari nuovi per insediarsi nel presente e percepire la vita che scorre tra passato e futuro. L’invito a ritrovarsi nel giardino della memoria, dove una pianta diventa lo slancio per commemorare le vittime della pandemia.
Chi resta è il germoglio verde che farà ombra al passante, chi se ne è andato è la foglia che si stacca dall’albero per andarsi a posare alle sue radici. Sono i ricordi a tenerci legati a terra e i sogni a farci librare. La nostra autobiografia non è mai un segmento lineare. È faticoso fare pace con quanto di terribile ci è accaduto. Perché la morte quando capita è per sempre. Ci spezza. Servono costanza e resilienza.
Un tratto di rossetto per tornare a essere belle, la leggerezza di una risata, il sapore nuovo di un viaggio. Piccoli obiettivi da raggiungere ogni giorno, nuovi traguardi da immaginare dando il giusto peso a ciò che è stato e a ciò che desideriamo sia. Andrebbe coltivata la cultura della cura, come auspica Papa Francesco in una lettera dedicata a questo libro, mentre Lidia Ravera ci invita a guardare alla realtà della morte attraverso il silenzio.