il figlio
Non avevo più voglia di conoscere mio padre. Era solo un vecchio rinsecchito
La malattia aveva colpito quell'uomo. Tutti quegli anni passati a mentire, a nascondersi, lo seppellivano sotto un sudario grigio e freddo. Una conchiglia vuota: ma da quanto tempo si era svuotata?
Non avevo più nessuna voglia di conoscere quell’uomo, seduto lì, davanti alla sua biblioteca, nel suo salotto. Ciò che era stato, chi aveva deciso di diventare, non mi interessava.
Non era più il padre bello, crudele, arrogante su cui avevo sempre fantasticato, l’uomo che aveva voluto lasciarmi anonima, senza cognome, che non mi aveva riconosciuta per chissà quali ragioni. Davanti a me c’era un uomo piccolo, rattrappito, rinsecchito dalla vecchiaia, i cui occhi, privi di splendore, evitavano i miei. La malattia aveva colpito. Tutti quegli anni passati a mentire, a nascondersi, lo seppellivano sotto un sudario grigio e freddo. Era perso tra il mio sguardo e quello della sua donna, che interrogava per sapere come comportarsi: era ridiventato un bambino. Io, che ero venuta per trovare un padre, avevo trovato un bambino! Un bambino che parlava come un adulto, ma senza alcun senso, senza nessuna sensibilità, una conchiglia vuota. E da quanto tempo quella conchiglia si era svuotata? Era mai stata piena?
Mi assomiglia, io gli assomiglio. Nulla da dire. La sua donna ammutolisce per lo stupore. Lei lo sapeva, ma non immaginava fino a che punto. La somiglianza tra noi denuncia la crudeltà del comportamento di mio padre. Tutte le ragioni bassamente materiali svaniscono di fronte ai geni, che gridano all’ingiustizia. La bella biblioteca in quercia massiccia mi contemplava. E’ vero, gli somiglio, gli occhi blu, la carnagione chiara. I libri erano disorientati da quello che stava accadendo; agli autori, stupefatti, mancava il respiro. Quell’uomo sembrava comprendere i loro scritti. Sembrava amare i libri, li restaurava e li proteggeva foderandoli con carta trasparente. Come aveva potuto comportarsi come l’ultimo dei cani? No, nemmeno i cani attaccano i loro piccoli: li lasciano vivere, nutrire nella stessa scodella, crescere vicino a loro, da buoni pedagoghi.
E allora, l’ultimo di quale specie? In natura nulla che nasca, cresca, prosperi e muoia può sostenere il confronto. L’ultimo sasso nella ghiaia, l’ultimo bagno alla turca? Come quello in fondo al giardino: una tavola bucata sopra una fossa maleodorante, con la porta che chiude male e sbatte per il vento. “Quando ti deciderai a far riparare la porta del cesso?” grida la moglie al marito, abbandonato davanti a un Ricard. Come aveva potuto? Lui, così raffinato, che beveva solo whisky invecchiato vent’anni senza ghiaccio, assaporandolo a piccoli sorsi, ascoltando Wagner davanti al fuoco del caminetto, un libro d’arte italiana del Quattrocento sulle ginocchia. E la sua donna che gli sussurra: “Caro, e se a Pasqua andassimo a vedere la Madonna del Parto?”. “Ha una bella biblioteca!”. La biblioteca si gonfiò d’orgoglio, innamorandosi fin dal primo momento della nuova arrivata. “Era di mio padre”, rispose la moglie.
Questa frase anodina sospese il tempo, riempiendo di stupore i presenti. La nuova arrivata, che per tutta la vita aveva sognato questo padre ricco e colto, accanto al quale avrebbe potuto leggere, imparare, divorare centinaia di libri, comprese tutto. Lui non era che il depositario di un tesoro che non aveva saputo né apprezzare né mettere a frutto. E la biblioteca si sentì improvvisamente orfana, adottata solo per la sua bellezza esteriore, per lo chic che la presenza di libri conferisce a un salotto. Quest’uomo non aveva saputo appropriarsi né della biblioteca, né di sua figlia. E della sua stessa vita? Se n’era appropriato? L’aveva vissuta? E per evadere dalla sua vita, divenutagli estranea, dimenticava. Dimenticava il proprio indirizzo, il latte sul fuoco, persino sé stesso. Ma non dimenticava la galanteria. “Ha delle belle gambe”. “Roba da matti!”Il suo cervello scombinato gli faceva commettere gaffe incestuose.
Anny Romand
Inedito per il Foglio
Traduzione di Alessandro Orlandi