Il figlio
Raccontare Flaiano: il treno da Pescara a Roma, l'infanzia infelice e il disincanto
"Un uomo che conobbe il dolore mascherandolo continuamente", diceva Gassman di lui. Ora un nuovo docufilm, Straniero in patria, ne celebra lo sguardo anticipatore. La riscoperta di uno degli intellettuali più eclettici d'Italia
Fa tenerezza, e anche un po’ sorridere quel ragazzino che in un momento in cui Parigi si ubriacava nell’effervescenza dei suoi Annés folles o Roaring Twenties che dir si voglia – si ritrovava a viaggiare in terza classe su un’improbabile treno abruzzese che da Pescara lo portava fino a Roma.
Perché il piccolo Ennio Flaiano - che non era ancora Ennio Flaiano (1910-1972) lo scrittore, lo sceneggiatore, il giornalista e l’intellettuale a tutto tondo – si ritrovò a passare più di tre ore in compagnia “di un gruppo di fascisti locali pronti, senza esserlo, alla marcia su Roma” – come raccontò più avanti in un’intervista - impegnati a gridare, a fare scherzi di dubbio gusto e a mangiare a bocca aperta i panini con la cotoletta e la frittata preparati da mammà, regalando al treno e agli altri viaggiatori “un profumo orrendo”.
L’analisi sociale e l’ironia di Ennio Flaiano, la sua rapidità mentale, la sua capacità d’entusiasmo e il distacco iniziarono anche da lì, in quel vagone dove nessuno avrebbe mai voluto salire. Lui una madre ce l’aveva, questo sì, ma solo su carta, “perché conosciuta troppo poco o troppo tardi”. Aveva nove fratelli ed era arrivato per ultimo, per sbaglio, “a tavola oramai sparecchiata”, come amava ripetere, e quella donna, stanca dei continui tradimenti del marito, decise di andarsene dall’oggi al domani lasciandolo in balìa di sé stesso, come un pacco postale in un’infanzia dickensiana, un’esperienza alla David Copperfield che gli procurò ferite nel suo io più profondo.
Negli anni in cui si ha maggiormente bisogno di affetto e cure, fu lasciato solo, parcheggiato in tanti luoghi e famiglie diverse: ricche, povere, colte, contadine o in collegio, come quello nazionale, a Roma, un’oasi in un deserto del sapere dove lo portò quel treno che sembrava non arrivare mai. Col padre e gli altri fratelli abitava a Pescara, all’epoca ancora un paese povero di pescatori, in una casa vicina a quella di D’Annunzio, croce e delizia – poi – della sua esistenza. “Non è che lì mancassero le scuole, dichiarò nel 1972, ma la verità è che mio padre voleva togliersi dai piedi suo figlio…No, non perché fossi turbolento, ma il fatto è che in casa c’era una situazione critica. Ricordo solo di aver vissuto un’infanzia piena di esili: nelle Marche, a Camerino, Fermo, Senigallia, Chieti, Brescia e infine a Roma”.
Quelle parole, unite ai suoi pensieri e aforismi, ai ricordi di persone che lo hanno conosciuto o solamente letto, studiato e amato, si ritrovano anche in Ennio Flaiano, Straniero in patria, un docufilm scritto e diretto da Fabrizio Corallo e Valeria Parisi per 3D produzioni e Rai documentari che qualche mese dopo i cinquant’anni dalla sua morte (il 20 novembre 1972), celebra lo sguardo anticipatore di un intellettuale raro per indipendenza, talento ed eclettismo. “Un ragazzo disincantato, ma incantato allo stesso momento”, “un uomo che conobbe il dolore mascherandolo continuamente”, come lo definisce Vittorio Gassman nell’attento film di Corallo (recuperate anche il suo Mariangela!, dedicato alla Melato, ne vale la pena) che incuriosisce e invoglia a riprendere in mano i libri di quel genio della scrittura: da Il bambino - lo scritto che raccolse quella tragi-esperienza infantile, un soggetto pubblicato per la prima volta nel 1984 nel volume Storie inedite per film mai fatti – fino a Tempo di uccidere, del 1947, di recente ripubblicato da Adelphi, con cui vinse la prima edizione del Premio Strega. E poi i film scritti con il suo amico Federico Fellini, su tutti La dolce vita, ambientato a Roma, la città dove Flaiano perse l’innocenza maturando resistenza, quella dove imparò a ridere e a far ridere senza mai rinunciare a un pensiero sulle cose e sulle persone.