Dipinto di Léon Spilliaert

Il figlio

La poesia abissale di Marina Cvetaeva

Fuani Marino

La difficoltà di comprendere la singolarità della scrittrice russa. Fino al suicidio a Elabuga, una cittadina della Repubblica autonoma tatara dove si trovava sfollata

A volte i figli sanno essere crudeli. Come Georgij Efron, nato dall’ufficiale antibolscevico Sergeij Efron e dalla poetessa russa Marina Cvetaeva, negli anni di miseria e confusione che precedono la morte di quest’ultima. Diversamente da Anna Achmatova e da Boris Pasternak (suo amante epistolare al quale aveva consacrato il figlio come a una divinità), Marina Cvetaeva – abituata a definirsi “semiviva” – non regge. Se già in Deserti luoghi (Adelphi) Serena Vitale ricostruisce gli ultimi anni di vita di Georgij, detto Mur, qui troviamo il racconto dettagliato di quanto precede e segue il suicidio della madre nel 1941 fino alla sua morte sul fronte bielorusso, nel 1944, a neppure vent’anni. Siamo negli anni a cavallo della seconda guerra, quando nel 1939 Marina Cvetaeva fa ritorno in Russia (dopo un vagabondaggio con il figlio Georgij che dura dal 1922), e due estati dopo si impicca nella sua piccola casa di Elabuga, luogo infernale dove “si trova una stanza solo in strade abominevoli, fangose, lontane dal centro”. Grida dai tetti il suo amore per me (edizioni Magog di Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini, tradotto da quest’ultima) è un testo straziante di difficile definizione. Saggio, diario, raccolta di scritti e poesie, ci restituisce l’orrore che in pochi anni conduce alla morte di una madre e di un figlio. Entrambi scappano in cerca di salvezza, senza trovarla.

 

Il testo si apre con un saggio di lei sull’origine e il significato della poesia. E se per Marina Cvetaeva “la poesia è un abisso”, è a quest’ultimo che la sua vita sembra destinata. Mentre osserva sua madre colare a picco - il padre intanto verrà giustiziato - il diario diventa per Mur una “zona franca” dove rifugiarsi e a cui può consegnare i suoi drammi di adolescente. La sua giovane mente di ragazzo, infatti, ha anche altro di cui occuparsi: come proseguire gli studi o come perdere la  verginità. Esasperato dalla situazione di povertà e isolamento in cui versano, non pare incline al perdono o all’empatia: “Mia madre sembra una banderuola (…) Lei cerca di ottenere da me “una parola decisiva”, ma io mi rifiuto di dargliela perché non voglio che la responsabilità delle sue gravi colpe ricada su di me. Da quando abbiamo lasciato Mosca, ho smesso di interessarmi a tutto e ho rinunciato totalmente al mio diritto di replica. Che se la cavi da sola!”. E ancora: “Alla fine mia madre ha agito contro la mia volontà portandomi via da Mosca. Grida dai tetti il suo amore per me, pare sia stato questo a spingerla a tanto. Ma ora deve dimostrare con i fatti di aver capito ciò di cui ho più bisogno (…) In questi giorni sto vivendo i miei giorni più terribili, in questa fossa in cui la stupidità e la rigidità di mia madre mi hanno impantanato”. 

 

Mur non è il solo che stenta a comprendere la singolarità di sua madre. Anche la figlia maggiore, Ariádna, finita in un campo di lavoro, a soli sei anni definirà Marina “una persona molto strana”, una donna che a differenza di tutti gli altri genitori “non ama i bambini, né i suoi né quelli degli altri”. E mentre le ultime parole scritte della donna sono una preghiera in cui affida le sorti del figlio accertandosi che non resti solo, quest’ultimo scriverà ai suoi parenti dopo il gesto fatale: “Più di una volta mi aveva parlato della sua intenzione di uccidersi come della migliore decisione che potesse prendere”. E aggiunge perentorio: “Io la capisco e la approvo completamente”. L’aveva predetto, il 27 agosto 1940, in anticipo di un anno: “Mia madre parla sempre di suicidio. (…) La situazione è terribile e mia madre mi sta demoralizzando con il suo pianto e il suo lasciarsi andare. Dice che tutto sparirà, che si impiccherà”. Il diario si interrompe infine nel 1943, un anno prima di morire sul fronte, lui che come entrambi i genitori aveva appena cominciato a scrivere poesie.

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