Foto di Andrés Neuman, via Unsplash 

il figlio

Un uomo aspetta la nascita del figlio. Viaggio in una bufera di ferro e vitamine

Michele Neri

In "Ombelicale" Andrés Neuman prova ad aggiungere il sovrappiù al reale già noto della paternità. Come e con quale linguaggio un padre vive l'attesa del suo bambino

Se c’è un libro che ribalta il detto per cui si fallisce sempre a parlare di ciò che si ama, è Ombelicale (Einaudi, traduzione di Silvia Sichel): la ballata sentimentale e iniziatica che lo scrittore argentino Andrés Neuman dedica a quel favoloso sovrappiù del reale già noto, evento sacro quanto misterioso, che è l’arrivo di un figlio, nel suo transito da embrione a creatura gattonante. Dalle “tracce rupestri delle ecografie”, in cui appare talvolta ippocampo, astronauta, elettrone fluttuando nel proprio “yoga primigenio”, a quando, a pochi mesi d’età comincia a subodorare la legge di causa ed effetto.
 Non si accontenta, come altri, di un testo accalorato e languido di fronte alla magia: Neuman è coraggioso. 

Tenta di spiegare il trucco non da mago ma in quanto spettatore ignorante, arrischiando un dialogo con i frammenti fuoriusciti da quella dimensione occulta. Il minuscolo mago non conosce le parole per descrivere la propria esistenza di “nuotatore pionieristico”: tocca al padre coniare un linguaggio con cui attraversare la trama stretta del confine sovrannaturale, saggiare la ricchezza dell’ignoto; dare del tu a chi non risponde, per domandargli se nella sua capsula ci siano “minuscole trombe d’aria, tempeste placentari, bufere di ferro e vitamine”. 


Nelle ultime settimane di attesa, l’invisibile estende il potere, è immanenza che riempie giorni, notti e volumi; preannuncia per tutti, l’abbandono delle funzioni precedenti, una rivolta del sentire, la rinuncia a quanto il nascituro non conosca. Tramite la fantasia del padre, il figlio egemonizza le ultime notti a due: “Tua madre sta dormendo. ciclista notturno, tu tieni in moto la macchina del sogno e i tuoi piedi pedalano il suo inconscio”. 


Si avvicina il travaglio. Dopo le ultime settimane in cui il mondo insiste ad anticipare i tempi, a ordinare quanto è ancora incerto e oscuro, – “sono arrivati gli abiti prima del corpo” –, appare, sulla soglia, un’ultima domanda, quella che il padre rivolge al figlio e a sé: “Cosa intuisci che ti aspetta alla frontiera?”. Varcata questa, l’immaginato diventa l’apparso. Cosa resta allora del primo, affinché il secondo non sia “normalizzato” da scienza, cure, tradizioni, diluendo l’eccezionale intensità di tempo di gravidanza e parto? 

Neuman conferma i nostri sospetti: l’uscita dal mistero trasforma la lingua. Da immaginifica e aliena quanto l’embrione, diventa familiare e placata, sentimentale. Una volta a casa, i figli si somigliano, e così le frasi che li descrivono, per quanto ispirate: “Ho paura di soffiarti e che tu sparisca”. A quel punto al padre scrittore non rimane che farsi piccolo, mettendosi al posto del neonato. Nell’accorgersi che, per strappargli la sua prima, raggiante parolina, Aè, deve compiere anche lui qualcosa, deve meritarla, riconosce che sorridere affatica. Divertirsi senz’aiuto, è dura. Mentre il figlio cresce, producendo canonici impasti di bave, veglie, spaventini e carezze, il padre apprende da lui inedite proporzioni spaziali.

Non lo porta alla propria dimensione, scende di livello, scoprendo gli effetti di un’esplorazione celeste: insieme al bambino “astronomo interiore”, battezza piani e altezze della casa come un cosmonauta caduto sul pavimento. 
Quando si accorge che il figlio inizia a volere sempre di più – “desidera fare prima di potere”– il padre diventa ventriloquo. “Io non voglio arrivare nei luoghi. Non voglio sapere dove andiamo… Voglio solo una fontana”. 

Il padre capta che il figlio, assediato da mille proposte avanzate dai grandi, non desidera nulla di ciò. Qualunque esperienza o frustrazione stia provando, ora che i ginocchi si piegano ancora al momento sbagliato, lui è già nel futuro, certo che “qualcosa poi accadrà”.

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