Il Figlio
L'assassinio senza movente di una madre. Il male spietato di una bambina
“Cose dell’altro mondo”, nove racconti di Elizabeth McCracken (Bompiani) attorno al dolore che lega le generazioni. Non contano le situazioni, solo il vuoto dell’assenza e l’occhio che lo descrive
Shul è un concetto buddista: descrive il vuoto lasciato da qualcosa ora assente, quella concavità dolorosa e spiazzante dopo che un quadro, una mano, una casa o una vita intera è stata rimossa per sempre dalla nostra esperienza. Un’identità poi visibile soltanto come ombra; quel pericolante valore dell’esistenza con cui chi resta è obbligato a convivere, perché ogni fingimento allontanerebbe di più ciò che è perduto. Di questo parlano i nove impeccabili racconti di Elizabeth McCracken, raccolti con il titolo Cose dell’altro mondo (Bompiani, traduzione di Giovanna Granato e Alessandro Mari) e che stravolgono e consolano come la migliore Lucia Berlin. Partono dall’equivoco che “una persona morta è un oggetto smarrito. Questo si sa. Eppure continui a cercare quello che ti hanno portato via. Sai – te lo hanno insegnato – che ciò che ti apparteneva non ti verrà mai restituito. Ma sei comunque in credito”. Il vuoto è creato dal male spietato di una bambina, dalla sparizione, in una piccola comunità, di una donna, dall’assassinio senza movente di una premurosa madre di famiglia, da un tradimento o dal rapimento di un ragazzino. Ma circostanze o cause non contano: sono gli occhi rapidi a cogliere i piccoli, spesso comici moti di volontà dei sopravvissuti, i loro sbilenchi ricominciamenti, a trasformare rimpianto e dolore in oggetti maneggevoli, smussati; una conca – shul – in cui entrare e andare oltre. È una lingua misurata e frutto di anni di lavoro, a dare ai racconti una levigatura perfetta. “I morti continuano a vivere con semplicità. Sono sull’elenco del telefono. Ricevono la posta. Le loro parrucche riposano sulle teste di polistirolo in fondo agli armadi…”. L’ipocrisia è bandita: “Distrutta, perseguitata, affranta, ossessionata: gli amici ti diranno di tirarti su. In realtà ti stanno dicendo di piantarla. Ma la volontà non c’entra. Tempo e luce: non serve altro. E in fondo chi ne ha voglia?”. (Dal racconto che dà il titolo al libro).
In Folgorazione Helen, un’adolescente angosciata e di talento, è in vacanza a Parigi con i genitori che lì sperano di comprendere meglio le sue contorsioni. Sbatte però la testa in modo da non riprendere più pienamente coscienza, parola o movimento. Il dramma separa i genitori, rivelandone l’opposto futuro. Quando la vede nel letto d’ospedale, la madre dice al marito:
“Lo so, lo so che cosa pensi di me, Wes”.
“Io non…”.
“Non è che non è lei. È che… chiunque sia questa persona nel letto, sta dove dovrebbe stare la mia Helen. È questo che non riesco ad accettare ed è questo che devo accettare, lo so”.
Il marito insisterà invece a sostenere con la propria, la mano della figlia, così da mostrare a tutti che, per interagire, dipinge cose bellissime. Sa di mentire e al tempo stesso non rinuncia: “Helen dipingeva. Questo era reale (…) Guardò la moglie, che amava, che sperava tanto di convincere, e gli sembrò di buttarsi a capofitto nella felicità. Era un numero da circo, pericoloso, per giunta. La felicità è una vasca stretta. Devi essere sicuro di evitare i bordi”. Sylvia, la nonna protagonista di Fame, “era il tipo da caramella dura con la carta di cellophane colorata”. Quando il figlio, ricoverato in ospedale, non sopravvive all’intervento, lei che si sta occupando della nipote Lisa “cicciottella, adorabile, spensierata”, insiste a rimpinzare la bambina di dolci, perché “finché stavano fuori tra insalate di cavolo, Jell-O e hot dog bruciati, l’allettante assortimento di patatine, le bandierine sui tricicli con i colori nazionali. Là fuori Lisa non era senza padre e Sylvia non era senza figlio”. Sullo sfondo riecheggia George Saunders: “La narrativa ci aiuta a ricordare che resta tutto da vedere. È un sacramento dedicato a questo fine”.