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il figlio

La vita bugiarda dei ragazzini nel romanzo sul grande amore dell'amicizia

Mattia Zecca

Gianmarco Perale nel suo ultimo libro "Amico mio" racconta con prosa asciutta ed essenziale un sentimento e una forma di relazione che prende forma, forse in maniera irripetibile, solo in giovane età

Avevo tredici anni e un accenno di peluria sopra al labbro e intorno all’ombelico, quando la Righetti, professoressa di italiano, decise che Mattia e Giovanni, compagni di banco dal primissimo giorno, tra i più tranquilli della classe, andavano separati, uno in terza fila, lato destro, l’altro all’ultimo banco, vicino alla finestra.  La motivazione era che stavamo troppo insieme. Come dire che ci volessimo bene e quel bene era troppo, evidentemente, una colpa da espiare, che nessuno osava (né forse sapeva) spiegare. Piansi un’intera notte lacrime di dolore vero,  vissi quella separazione – la stessa aula, due o tre metri di distanza, insieme pure al basket e al catechismo – come uno strappo definitivo, un male insuperabile. E non perché ne percepissi l’ingiustizia o lo ritenessi incomprensibile. Tutto il contrario. Faceva così male perché sentivo che la Righetti aveva ragione: quel bene era troppo per gli altri, figuriamoci per me. Stare insieme a Giovanni mi regalava un senso di benessere assoluto, il termosifone caldo dopo ore di mani al freddo e senza guanti, il primo sorso che accoglie una sete notturna che aveva interrotto il sonno, una necessità finalmente soddisfatta, che non può essere ignorata, può generare violente astinenze. La pace che mi garantiva il profumo dell’alito di Giovanni, seduto accanto a me a fare i compiti in cucina dopo aver bevuto il succo di frutta alla pesca, aveva la stessa intensità della fitta che mi chiudeva lo stomaco quando sentivo che Giovanni aveva invitato Luca Petrelli, non me, a studiare da lui. 

 

E’ un mondo simile ai miei tredici anni quello di cui scrive Gianmarco Perale nel romanzo Amico mio (NN Editore), con prosa asciutta ed essenziale, fatta pressoché esclusivamente di dialoghi privi di commento, proiettori di immagini nitide (“ha messo i talloni sulle mie ginocchia”, “sono andato al lavello, e ho visto il latte e i cerali vicino ai buchi dello scarico”, “mi camminava davanti, rapido, lo zaino gli rimbalzava sulla schiena”). Eppure, in questa vita bugiarda dei ragazzini, c’è tutto quello che occorre per raccontare quella forma di amore che, per semplicità, al tempo, chiamavamo amicizia, l’amore selvatico, forse irripetibile – per fortuna, purtroppo: dipende – che a tredici anni Tommaso, il protagonista, esprime nell’ossessione, nel possesso, nella limitazione dell’altro come unica possibilità per raggiungerlo.

 

Poni è il migliore amico di Tommaso e Tommaso non può fare a meno di lui, pretende che anche per Poni sia lo stesso, è disposto a qualunque cosa pur di difenderlo. E in un mondo ambiguo dove l’altro appare una salvezza e una minaccia nello stesso momento, allora amare qualcuno può aver significato, forse, anche difenderlo dal male che può infliggergli quel mondo, proteggerlo dal dolore che gli altri possono procurargli, persino a costo di ritrovarci a essere noi la fonte regolata di quel dolore, noi gli artefici di un male che è sempre male, però più giusto, persino necessario, noi e nessun altro, noi la cura che intossica più del morbo che vuole curare. Poi – per fortuna, purtroppo: dipende – accade che cresciamo. E impariamo (o avremmo dovuto imparare) a far coincidere l’amore con la libertà dell’altro, il sequestro di persona con il disamore, aspirando a raggiungere, come scrive Perale, “un posto dove le persone si amano e non sbagliano mai”, la pena di un Blanco che ci vorrebbe amare, ma sbaglia sempre. Purtroppo, impariamo pure a distinguere l’amore dall’amicizia, trattiamo quest’ultima come un amore depotenziato e quasi innocuo, gli riserviamo energie sentimentali più rassicuranti, o almeno questo è ciò che fa la vita. La letteratura invece sa, o almeno non dimentica, con le sue amiche geniali, le sue persone normali, che c’era un tempo in cui eravamo volpi fameliche, non ancora addomesticate.

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