Il figlio
Vetro, Ironia e Dio. Mi cade addosso da una grande altezza un fragile fatto: mia madre ha paura
Anne Carson racconta la fine di un amore e indaga il mistero che la sensazione di vivere con l'altro produce e contiene
Il saggio di vetro, lungo poema che apre la raccolta pubblicata nel 1995 da Anne Carson, Vetro, Ironia e Dio (finalmente tradotta da Crocetti, a cura di Patrizio Ceccagnoli), oltre a essere uno dei più amati dall’autrice, è considerato l’estremo, il più dolente componimento sulla fine di un amore mai scritto (“Non ero mai stata innamorata / Ero come una ruota che rotola in discesa”). La descrizione dello strazio per l’abbandono dell’amante che si chiama Law, Legge, come se l’amore soltanto permettesse di vivere secondo una norma umana e ogni esistenza al di fuori di esso fosse illegittima, si allarga a indagare quel mistero che la sensazione di vivere con l’altro produce e contiene. Per espandere il ventaglio dell’osservazione, Anne Carson dirige lo sguardo verso la madre e chiede la protezione di un’altra poetessa. Nella piccola casa della madre, oltre cui si estende la ghiacciata brughiera canadese, incontriamo “Tre donne silenziose a un tavolo in cucina”. La terza è Emily Brontë: per comprendere la natura della propria perdita, ha bisogno di vedere come s’intreccia con la furia, la sottomissione al dolore e l’indiscusso “orrore di grande oscurità” che visse Emily.
Della madre, in cui percepisce i prodromi di un altro addio, compone un ritratto compiuto in ogni dettaglio: “Dal modo in cui mastica il pane tostato / Capisco se mia madre ha dormito bene / E se sta per dire qualcosa di allegro / Oppure no / No”. Le risposte o le divagazioni con cui la madre partecipa al dialogo, suggeriscono il ritratto di chi è troppo anziano per riservare nella conversazione un posto all’equanimità della ragione: “Tu ricordi troppo, mi ha detto mia madre di recente. / Perché tenersi tutto dentro? E io: / Dove potrei metterlo? / Passò a una domanda sugli aeroporti”. Alla figlia non resta che entrare in un labirinto di frasi note, perché la tarda età ne ha bisogno a garanzia e illusione che la vita non cambi più: “Lo sai che in quella stanza puoi chiuderle le tende, fa lei. / Questo è un riferimento in codice a uno dei nostri più vecchi litigi, della serie che io chiamo ‘Le regole della vita’ / Io apro le mie il più possibile. / Mi piace vedere tutto, dico io. / Cosa c’è da vedere?”. A quel punto la discussione sulle tende raggiunge un incrocio che la figlia conosce e che potrà procedere lungo tre direzioni. “C’è il canale ‘Ciò di cui hai bisogno è una bella dormita’, il canale ‘Testarda come tuo padre’ e “Il canale del tutto a caso’. / Queste donne! Dice mia madre con uno stridore esasperato. / Ha scelto il canale a caso”.
La destrezza nel registrare parole e silenzi, accettandone il progressivo sparpagliarsi della logica, permette di scoprire ciò che non è altrimenti osservabile, come “Il povero cuore del mondo, spalancato” che aveva visto Emily. E sollecita la coscienza: “Mi cade addosso da una grande altezza un fragile fatto: mia madre ha paura. / Quest’anno compirà ottant’anni”. Quest’intima, quasi chiaroveggente osservazione dell’altro appare uno stato d’animo, più che un’azione; descritto da una parola che Anne Carson inventa e maneggia, prendendola da Emily Brontë. Nel manoscritto della poesia Gleneden’s Dream, watcher del verso iniziale per come fu poi licenziato: “Tell me, watcher, is it winter?”, era scritto wacher. Un termine inesistente e che Anne Carson trasforma nella versione massima, quasi medianica di to watch, guardare. Era così che, secondo Anne Carson, Emily Brontë “Osservava gli occhi, le stelle, il tempo atmosferico, il dentro e il fuori. / Osservava le barriere del tempo spezzarsi”. E’ così che Anne Carson guarda Law scomparire e la madre ritrarsi; non si vede più riflessa in loro, esiste dentro e fuori di sé. E’ così che noi capiamo di noi leggendo queste poesie. Sembra necessario to whach, per vivere con l’altro.