Il figlio
La paura della furia: “arriva l'acqua”, non si può restare soli
Si scatena la paura, la rabbia, soprattutto l’umanità. Gli occhi di pietra di una madre che cerca aiuto nelle strade allagate dell'Emilia-Romagna
Ero in Emilia-Romagna una settimana fa, Ferrara, Bologna e Forlì, e pioveva. Soprattutto a Forlì, pioveva un sacco, non smetteva mai, tirava vento e sembrava inverno. Sui telefoni dei miei cugini arrivavano i messaggi di allerta della Protezione civile: state in casa, uscite solo per ragioni di urgenza. Noi avevamo l’urgenza di vederci, non succedeva da tempo, e un po’ ridevamo di questa pioggia che ci faceva entrare l’acqua nelle scarpe e di questo cielo grigio scuro che diceva: ma dove credete di andare adesso. Appena smetteva di piovere dicevamo: dai, è passata, si è sfogato. Invece non si era sfogato per niente e adesso a Forlì, a Cesena, intorno a Lugo di Romagna, a Imola, a Faenza ci sono state vittime, ci sono morti annegati e ci sono persone che sono salite sui tetti e persone che sono al secondo piano a pregare, hanno guardato l’auto parcheggiata accanto a casa nuotare via, neanche troppo lentamente. Ma perché non venite da noi, è più sicuro. Ma dove vuoi che andiamo, la strada è diventata un fiume, la strada non esiste più.
C’è un bambino piccolo in braccio a sua madre, e sua madre ha l’acqua al petto e chiama aiuto, arrivano due persone a nuoto. A nuoto per strada. Dopo che quattordici fiumi hanno esondato. Il bambino viene portato in salvo da un uomo alto, un vicino di casa, la madre guada il fiume che si è creato con il suo corpo e gli occhi adesso sono spenti, è sotto choc. Riconosco quello sguardo, l’ho già visto ad Amatrice tra le macerie delle case. Riconosco quello sguardo perché diventa di pietra, come l’indifferenza della natura estrema che trascina via le persone nel fango, le risucchia nei fossi e rompe l’argine del Montone. Questa madre cammina nel fiume ed è arresa, è salva ma è diventata di pietra.
Scrivo a tutti gli amici e i parenti che ho in Romagna, stanno bene e mi rispondono: è un disastro, è una catastrofe, non avrei mai creduto. I sacchi di sabbia per barricare le porte e le finestre non si trovano più da nessuna parte, la mia amica di Lugo ha usato i sacchi di terra, quelli per il giardino. Dice: sono tre anni che non abbiamo tregua. Dice: ora arriva l’acqua, devo lasciare le linee libere. Ci sono famiglie prigioniere ai terzi piani dei palazzi, con l’acqua fino a tre metri e case immerse nella melma, senza acqua senza luce e senza gas. Gli animali dentro casa, le galline nei ripari in alto, i capannoni distrutti, il lavoro di una vita, addio a tutto quello che mi toglieva il sonno la notte. Anche quando smette di piovere, i torrenti non smettono di esondare perché le aree di laminazione sono piene e non assorbono. Le rotaie della ferrovia adesso sembrano strappate dalla mano di un gigante.
Provo ad aprire uno dei gruppi Facebook per i quali prendo sempre in giro mia madre: sei di S.Agata se, sei di Faenza se, sei di Rimini se. Funzionano come un 118, ci sono segnalazioni di anziani intrappolati, via e numero civico, fate presto, nessuno ci risponde, foto di animali infreddoliti in un giardino fangoso e deserto, la vicina chiede: cosa faccio lo prendo? Ho chiamato la polizia, ho chiamato mia madre, ho chiamato mia figlia. Un uomo aggrappato a un ramo per undici ore. Si scatena la solidarietà, si scatenano le notizie false, si scatena la rabbia, ma prima di tutto si scatena l’umanità: non si può restare soli ad aspettare l’acqua. Aspettare l’acqua: prima era un’attesa speranzosa, adesso è la paura della furia che non conosce umanità. E quando spunta il sole, non è un sollievo, non è finita.