Il Figlio
L'anti memoir di una madre e di una figlia. Sempre c'è una bambina
La cronologia dell'acqua di Lidia Yuknavitch non è un’opera tradizionale, ma un esperimento, un viaggio della mente che si fa corporeità, e soprattutto è il canto, semi-autobiografico, di una ferita
Per leggere Lidia Yuknavitch è necessario accettare che ogni frase possa diventare un viaggio. A questa scrittrice californiana, residente da anni in Oregon, la trama importa fino a un certo punto, e quel punto deve sempre piegarsi al ritmo, al sogno, alla strada che nelle storie si apre grazie alle parole e alla loro danza. Lasciarsi cadere, il suo nuovo libro appena pubblicato da nottetempo (tradotto da Alessandra Castellazzi) inizia in una regione imprecisata dell’Europa dell’Est. C’è la guerra, esplodono bombe, esplodono anche le case e le persone. L’inviata di un giornale scatta una foto a una bambina che fugge dalla sua casa un istante prima che l’edificio e la sua famiglia vengano spazzati via da una palla di fuoco. “Questa, lettrici e lettori, è la storia di una madre e di una figlia”, avverte l’autrice, precisando poi: “Dentro a tutto ciò che scrivo c’è una bambina”. Chi ha letto il suo libro precedente, l’anti-memoir (così lo definisce) La cronologia dell’acqua, ricorderà che Yuknavitch ha avuto una figlia nata morta o, come scrisse lei, “morta lo stesso giorno in cui è nata”. E quella neonata torna anche qui, mescolando le carte e il filo della narrazione. Il come lo vediamo tornando alla fotografia. Non passa molto tempo prima che l’immagine raggiunga la fama in Occidente. Il soggetto, però, ovvero l’orfana la cui famiglia è stata polverizzata da una bomba, viene ignorato da tutti. Come i bambini morti sulle spiagge del Mediterraneo, come i piccoli che muoiono di fame in Africa, non la si vede come quello che è, cioè una bambina bisognosa d’aiuto, ma come una cosa di fronte alla quale rattristarsi dalla placida e luminosa sicurezza delle nostre vite. C’è però una persona che pensa a lei ossessivamente: una scrittrice americana che ha perso una figlia, nata morta. Darebbe tutto ciò che ha per salvare il destino di quella piccola umana. Quando la scrittrice si ammala, il suo gruppo di amici artisti, identificati solo con la loro professione — il pittore, il poeta — si riunisce per trovare e salvare l’orfana nella speranza che questo possa restituire la salute alla loro amica.
Noi lettori apprendiamo che la bambina è stata affidata alle cure di una vedova del luogo, la cui collezione di arte e poesia la ispira a dedicarsi alla pittura. Quando gli artisti finalmente la trovano, lei accetta di andare in America con loro e di essere cresciuta da quel gruppo, collettivamente. Dopo questo punto, però, non c’è nulla di certo; cinque dei sei capitoli finali offrono scenari differenti (la versione adulta di un libro-game, in cui si poteva scegliere la strada da prendere) e grazie a Yuknavitch possiamo vedere il dispiegarsi delle diverse possibilità. Questo dà il senso di quanto la trama importi all’autrice: per niente. Non è il suo obiettivo.
Se Joyce nel mondo occidentale è considerato il padre del flusso di coscienza, questa scrittrice sta diventando la madre di una narrazione che ha una struttura simile al flusso, ma non pertiene alla coscienza, bensì al corpo in ogni suo anfratto di sangue e di carne. Un fiume vivo, che ci invita a immergerci in lui e che a sua volta si immerge e si svuota in noi. Questo libro quindi non è un’opera tradizionale, ma un esperimento, un viaggio della mente che si fa corporeità, e soprattutto è il canto, semi-autobiografico, di una ferita. L’uso della foto da parte della fotografa, senza un tentativo di affrontare la sofferenza umana che se ne sta esplosa (letteralmente) in primo piano, solleva un’interessante questione etica: qual è lo scopo dell'arte? Dove finisce la responsabilità verso la propria vocazione e inizia quella verso gli esseri umani che di quell’arte fanno parte? Questa, direbbe Yuknavitch, è la storia di una madre e di una figlia. Ovvero la storia dell’opera primigenia.