Il Figlio
Tredici anni dopo, un'altra finale dell'Inter. E come a ogni festa, i vivi insieme ai morti
La cosa più incredibile è che la finale si giocherà a Istanbul. Per tutto il resto del mondo è un dettaglio insignificante, sembra un segno. Percepire la luce di un piccolo destino
Non so quale. Ma un significato, forse, c’è. Ricordi? Eravamo a Istanbul tredici anni fa, quando l’Inter ha vinto l’ultima Champions League, giocando contro il Bayern Monaco, a Madrid. Abbiamo festeggiato bevendo raki, l’alcolico di cui Atatürk era matto, e dalle imprevedibili proprietà psichedeliche. Rincasando, abbiamo cantato in coro su Istiklal Caddesi. Eravamo gli unici, in quella via talmente affollata che, la prima volta che ci sono andato, mi è preso un attacco di agorafobia.
Io vivevo a Istanbul da un anno. Tu eri venuto a trovarmi. Ma sai qual è la cosa incredibile? Non che l’Inter sia di nuovo in finale di Champions League, stavolta contro il Manchester City. O meglio, è incredibile anche questo: nessuno ci credeva, all’inizio della stagione, e nemmeno tu l’avresti mai detto. La cosa più incredibile è che la finale si giocherà a Istanbul. Capisci? Per tutto il resto del mondo è un dettaglio insignificante, lo so. Io, invece, lo vivo come un segno. Non so bene di cosa. Ma percepisco la luce di un piccolo destino. E ti giuro che lo dico senza aver toccato ancora un goccio di raki. Un amico interista mi ha detto che, fosse in me, prenderebbe subito un biglietto per Madrid. Cioè, farebbe il contrario di quello che abbiamo fatto, per caso, tredici anni fa: noi due a Istanbul, l’Inter che vince in Spagna. Visto il risultato, mi sembra perfettamente logico. Perciò, non gli ho dato retta. Sono riuscito a trovare un biglietto per la finale e domani sarò all’Atatürk Olympic Stadium di Istanbul. Ho speso parecchi soldi, sì. Tu non l’avresti mai fatto. Tu che l’austerità comunista berlingueriana l’hai avuta naturalmente, nell’incoscienza di classe. Ma so quanto avresti desiderato esserci. Di certo, più di me. Sei morto il 21 settembre scorso. All’improvviso. Il giorno prima del compleanno di Luís Nazário de Lima detto Ronaldo. Il calciatore che ti ha fatto godere di più nella storia dell’Inter. Dribblava così velocemente che nessuno capiva cosa avesse fatto in campo se non rivedendolo attentamente alla moviola. Quando prendeva palla, scattavi subito in piedi, Ululavi posseduto dallo stupore. Nello scalcinato Inter club di Vazzano, avevamo imparato a farti il verso. E ti imbarazzava non riuscire a trattenere l’impeto. Ma ti strappava proprio fuori di te. Dal tuo tirannico senso della misura. Ti riportava all’infanzia, all’incanto del gioco puro. E velocissimo come Ronaldo te ne sei andato. Una finta, poi un’altra, e non ti ho visto più.
Sono nerazzurro perché sul tavolo dove pranzavamo, d’estate, era incisa la scritta: “W Inter”. L’avevi fatta tu con un chiodo, quando eri ragazzo, ai tempi della grande Inter di Helenio Herrera. Tua madre ti ha rincorso per strada con un cucchiaio di legno perché le avevi rovinato una discreta parte del patrimonio. Teppista che non sei altro. A volte, riuscivi anche a essere spericolato. Come quando, da piccolo, mi hai regalato una maglietta dell’Inter di lana. La prima che ho avuto. Se ci penso, la pelle mi si irrita ancora. Aveva cucito il numero undici, quello di Aldo Serena. In campo, sognavo di essere come lui: forte di testa. E tu mi allenavi. Lanciavi la palla in alto e io dovevo colpirla in volo: “Come Serena”, dicevi. Non si ama mai una maglia, in astratto. Si amano sempre quelli che la indossano, i loro corpi. Ultimamente, guardo l’Inter e penso: questi sono gli ultimi giocatori che abbiamo visto insieme, gli ultimi che hanno addosso il tuo sguardo: Lautaro Martínez, Lukaku, Barella… Poi, pian piano, altri calciatori prenderanno il loro posto. E anche questo intangibile filo degli occhi si spezzerà. Non so come sarà, dopo. Ma mi sembra un segno, te lo ripeto, questa finale. Come tredici anni fa. Di nuovo a Istanbul. Tu padre. Io, ancora per un attimo, figlio. Come a ogni festa, i vivi insieme ai morti.