Il figlio
Me la sto chillando, e tu? Risposta spiazzante a fuga calcolata
Il mio trolley non vedeva l’ora di partire di nuovo, ma io gridavo alle porte chiuse: telefonatemi!
Può succedere di ritornare tutti e quattro insieme dalle vacanze, trascinando i trolley (se a due ruote) o appoggiandosi ai trolley come ai vecchi amici (se a quattro ruote), in fila indiana, due che corrono verso l’uscita per fumare una sigaretta, due che dicono che palle questa sigaretta voglio andare a casa. Andare a casa significa però anche disfare i trolley, che è un momento difficile e pieno di macchie, di cose perdute, di cappelli rovinati, quasi sempre pieno anche di una lavatrice rotta. C’è poi chi ritiene di non dover disfare proprio niente e ha già chiuso la porta della stanza abbandonando il trolley in corridoio, rovesciato, senza un atto di gratitudine, senza un po’ d’acqua in una ciotola, senza un premietto. Eppure è un trolley a quattro ruote ed è servito anche da sedia, da tavolo, da arma di difesa (è un trolley rigido), da installazione artistica (è pieno di adesivi e di scritte scandalose), come puoi trattarlo così dopo queste settimane insieme? E poiché tutte le porte sono già chiuse e si sente solo la musica troppo alta e la puzza di fumo, poiché i contenuti dei quattro trolley sono già stati rovesciati in un angolo, e guardando questa piccola montagna penso che potrei farne adesso facilmente un fuoco, un fuoco purificatore, un fuoco giustiziere, per non lasciarmi andare a pensieri ancora più horror riparto, con la scusa del lavoro.
Ah, quanto lavoro, ah povero il mio trolley che non ha un attimo di riposo. Ah, quanto starei più volentieri a casa a lavarvi le mutande, a stirarvi le camicie, a bussare alle vostre porte chiuse. E invece guarda, mi dispiace devo andare. Il mio trolley scatta in piedi, alza le ruote, si apre da solo: anche lui non vede l’ora di scappare, vuole essere riempito di roba pulita, vuole cambiare aria, guarda con disprezzo gli altri tre trolley che chissà per quanti giorni resteranno lì per terra, spalancati, preda dei gatti e dei fantasmi. Andiamo, mi dice con il manico, e per strada mi tira, mi spinge, mi mette in ascensore. Faccio solo in tempo a gridare alle porte chiuse: vi telefono, vi scrivo, scrivetemi anche voi. Le porte chiuse annuiscono e probabilmente esultano, sento delle vibrazioni, non ci faccio caso, le porte dell’ascensore si chiudono da sole. Il trolley festoso mi spinge fino al treno.
Nei giorni successivi lavoro, parlo, cammino, mangio, a un certo punto perfino ballo, e intanto nessun figlio/porta chiusa mi scrive o risponde ai miei messaggi, commenta le fotografie che mando, fa domande, niente di niente. Io che pure mi diverto e prendo caffè ai tavolini con la faccia al sole sono comunque troppo permalosa e quindi mi offendo. Faccio domande, come va? che fate? novità? tutto bene? vi manco? facciamo una videochiamata? dove siete? cosa dicono i gatti? cosa dicono i trolley? Niente, sono un fantasma, a un certo punto mi viene il dubbio che i miei messaggi siano trasparenti, che i miei figli abbiano imparato a bloccare i contatti senza farsi notare, poi mi convinco che abbiano messo “mamma” in archivio, cioè in una specie di spazzatura recuperabile ma eterna.
Invece una porta chiusa a un certo punto scrive: “Me la sto chillando, e tu?”. Me la sto chillando significa che va tutto bene, anzi benissimo, che il livello di rilassatezza è alto, che non c’è niente per cui tormentarsi, che non serve fare domande, mettere il muso, dire ma insomma non è possibile. Me la sto chillando è tutto. Quindi grazie, addio ipocrisia, posso finalmente ammettere che me la sto chillando anch’io.