Il figlio
Una madre danneggiata e Maria, che riversa nella scrittura il dolore ereditato
Il romanzo di Cristina Battocletti "Epigenetica" (La nave di Teseo). Individuare i filamenti di Dna riscrivibili e correggere gli antichi errori dei nostri antenati
Che cosa fa di noi ciò che siamo? E’ possibile che, oltre a informazioni genetiche e influssi ambientali, il nostro modo di provare dolore, gioia, paura, rabbia, altruismo sia ereditato dalle esperienze vissute in precedenza dai nostri antenati e noi ne siamo imprigionati, condannati a ripetere sbagli o fragilità di nonni e genitori? Ispirandoci a una disciplina scientifica chiamata epigenetica, la risposta è sì: il Dna non è un codice fisso, è alterabile da informazioni che trasmettono il patrimonio di sofferenze ed emozioni subite e, allo stesso modo, è riscrivibile in meglio attraverso volontà e cura, restituendo all’individuo un patrimonio più felice e che potrà cedere alla progenie, come semi che fruttificano in vite successive. A questa teoria affascinante s’ispira già nel titolo Epigenetica (La nave di Teseo) un romanzo di strabordante umanità e con ripetuti contraccolpi emotivi di Cristina Battocletti.
Non c’è istante nella vita della protagonista Maria, “una ciclotimica imprevedibile, condannata da un’infanzia infausta a far del male a sé stessa e agli altri. Angosciata, instabile negli affetti, paranoica…” che non sia impregnato di sofferenza, subita e provocata. Figlia di una donna danneggiata e abbandonica che insegna ad amare solo chi umilia o scappa, Maria nasce a Grado, ha due fratellini, il padre è incerto e comunque assente; dopo la fuga dell’ennesimo amante, la madre precipita nella nevrosi, i bambini sono affidati a loro stessi, poi a strutture, suore, famiglie, separati così che il baratro tra loro non sia richiudibile.
Viaggiando tra Friuli, Milano e Roma, Maria riversa il dolore ereditato nella scrittura: trova successo e scandalo, svendendo il proprio passato, “Avevo mostrato le macchie del mio sangue, avevo tradito la mia linfa, disboscato i miei rami… Svaligiato la mia vita in un libro…”. Incontra un quasi amore, “dopo tanti affondamenti avevo diritto a una gentilezza, a un uomo piano, a rapporti sessuali non predatori”, lei che conosceva solo l’amore per la madre, “una pazza che mi ha forgiato e mi ha reso uguale a lei”. Ha un figlio, da cui si allontana in una scena feroce: “Sentivo in me il fuoco della maledizione della mamma, la figlia di una mamma che non può curare i suoi figli e li abbandona a sua volta. Avvertivo fino nelle punte dei capelli la mia bassezza di essere umano non voluto…”.
Nonostante abbia interpretato alla perfezione “Quello spartito sgrammaticato, disallineato, incornato, puntuto che mi ha fatto diventare l’essere che sono”, Maria avverte che nel profondo della sua genetica restano filamenti riscrivibili. Deve scoprire come riempirli e correggere antichi errori. Se per decenni si era impegnata a progettare la distruzione della felicità, compie un passo in direzione opposta, cerca risposte a segreti incancreniti, desidera volti e voci famigliari, li trova, l’epigenetica funziona, basta insistere con chi non ti vuole, non osa pensare di meritarti o nemmeno ricorda, un fratello rimasto piccolo, un altro che ha cambiato nome, un uomo disperato che ruba i fiori dei funerali. Si può afferrare il nastro invisibile, cambiargli senso, sfuggire alla gravità che condanna a un destino fallimentare e iniziare così una replicazione vitale a base di tregua e riconciliazione. Basterà una parola familiare, un ricordo risvegliato da un tempo perduto. Da qualche parte, un ragazzo che vive costruendo aquiloni in riva al mare, non lo sa ma sta aspettando una madre che, dopo decenni, si sta avvicinando sulla sabbia e tutta la storia, da sporca e dura si fa subito limpida e promettente. “Assomiglia terribilmente a mia madre, il naso minuscolo alla francese che quando era piccolo sembrava quasi non lo avesse, (…) come uno sbarramento ai cattivi pensieri. ‘Epigenetica’, dico ad alta voce”.