Il Figlio
"Vuoi venire in macchina con me?" Una sorellanza inaspettata che mi ha salvata
Accettare un passaggio da una sconosciuta nella giungla dei treni di Milano. La storia
L’altra mattina mi sono diretta in stazione. Avrei dovuto prendere il passante ferroviario e, dopo qualche fermata, la nuova celebrata metropolitana che collega la città all’aeroporto di Linate. Mi aspettavano a un festival in Campania. Il giorno dopo, dalla Campania sarei partita per l’Emilia Romagna, un’altra presentazione, un altro festival; e il giorno dopo, un altro ancora. La settimana prima ero stata in Svezia: in dieci giorni ero rimasta a casa solo tre. Ho ripreso gusto ad accettare inviti, ho pensato; ho ripreso gusto a viaggiare da sola, a sostare in aeroporto con un libro in mano, a leggere i giornali sul treno; ad andare da qualche parte. A dire il vero però non è solo un gusto rinnovato, è qualcosa di più, qualcosa che non indulge a compromessi.
Così sono arrivata in stazione, sono salita sul passante e ho preso posto. Ho letto qualche notizia, il Nobel per la chimica, l’album di Tommaso Paradiso; ma il passante non partiva: diciotto minuti di ritardo. Il primo treno utile per Rogoredo parte dal binario 3, ha detto il capotreno all’interfono. E allora sono scesa e ho corso fino al binario 3, per poi rendermi conto che questa volta non andavo a Rogoredo - andare a Rogoredo non mi sarebbe servito a niente -, così sono tornata al binario 1. Quando ho messo piede sulla banchina, il passante è partito sotto i miei occhi.
Sono uscita dalla stazione e ho chiesto a un tassista di portarmi a Linate ma voleva 130 euro e così sono rientrata, mi sono calmata e sono salita sul passante successivo continuando a fare i calcoli del tempo rimanente, il check-in per il volo già fatto on line, il tempo di percorrenza della metropolitana, i controlli in aeroporto. Sono salita sul nuovo passante e mi sono detta Ok, ce la puoi fare: al pelo, ma ce la puoi fare. Ma solo se il treno parte in orario. Ho iniziato a fissare l’orologio scongiurando che si mettesse in moto, ma all’ora stabilita era ancora fermo in stazione. Avevo il respiro affannoso neanche dovessi arrivare in tempo al mio matrimonio. Arrivare in Campania per il festival a cui mi avevano invitato era più importante di qualsiasi altra cosa, l’evento più irrinunciabile, ineludibile del mondo. Ma perché? Ho pensato.
Andare è diventato fondamentale. Andare ovunque per ritrovare uno spazio oltre la vita familiare, andare per incontrare persone e sentirsi parte di una comunità di scrittori e scrittrici, un popolo sgangherato senza luoghi di appartenenza comuni se non i festival e le fiere; andare per schivare i rimpianti; andare per trovarsi: vedere la propria vita più completa, più a fuoco, prima che tutto inizi a sfumare per sempre. Il secondo passante non è mai partito dalla stazione: dopo 15 minuti oltre l’orario della partenza, ci hanno comunicato che il treno era rotto. Rotto? Cosa vuol dire rotto, io devo prendere un aereo!
In Campania non ci sarei mai arrivata, avrei perso la possibilità di lavorare per il mio libro, per me stessa. Era l’inizio di una catastrofe. Poi ho alzato la testa e ho visto che una ragazza da un sedile mi fissava. Mi ha detto: "Vuoi venire in macchina con me?". Aveva lasciato la macchina in stazione per andare a Milano in treno, ma evidentemente era destino che proseguisse il viaggio in automobile. Ho risposto: "Sì, certo, sei sicura?". Non l’avevo mai vista in vita mia. In autostrada mi ha raccontato che lavora in un’azienda tecnologica, ma vive in campagna. Mi è sembrata una di quelle donne contente della propria vita, una di quelle donne che preparano bene la tavola, che scaldano il pane prima di servirlo, che tirano tardi a parlare con un’amica al telefono sussurrando per non svegliare i figli. Di lei so solo che si chiama Letizia, e che mi ha portato in aeroporto in tempo. Pensavo che fosse così importante andare ovunque per ritrovare me stessa, che ho dimenticato quanto può essere bello incontrare davvero gli altri.