il figlio
Il principio del ritorno non lo puoi fermare, e il trolley lo sa
Che belle le vacanze in famiglia, ma che bello dire: che peccato, stiamo già tornando
Sono belle le vacanze in famiglia, è bello farsi il buco alle orecchie nello stesso sconosciuto posto della stessa città, uno dopo l’altro con gare di coraggio e strafottenza (vinte da me), è bello camminare sotto la pioggia, aumentare di mille la media dei passi giornalieri a fine anno quando non ci sono più speranze, è bello saltare l’apericena, la cena, la festa, i petardi, i brindisi, i balli e l’influenza di Capodanno senza doversi sentire i soliti sociopatici. E’ bello e triste pensare che manca poco e poi nessun figlio accetterà di venire in vacanza insieme a noi, di farsi pilotare nei musei e nei cinema, di andare il primo gennaio a fare colazione presto in una caffetteria in cui mettono la panna anche nel cappuccino e se dici che non la vuoi la ragazza bellissima che fa il cappuccino ti guarda come la solita sociopatica e scuote la testa.
E’ bello riuscire a non litigare per quattro giorni, espiare tutte le colpe raccogliendo sassi sullo stretto della Manica e dicendo sì a tutto, anche ai film di merda la sera, ma è ancora più bello avere superato i controlli all’aeroporto per il volo di ritorno. Scalzi, perquisiti, con le tasche vuote, lo zaino sventrato per un deodorante, maltrattati ma ancora liberi, ecco quello è un grande momento: il momento del ritorno a casa. Si possono usare tutte le monete rimaste, comprando patatine, Mars e cucchiaini da tè commemorativi della Regina Elisabetta. Si possono mangiare le ultime cose terribilmente malsane, con la sensazione di non poterne più ma con la voluttà di volerne ancora. Si può dire, con la bocca piena di un incomprensibile sandwich al formaggio: che peccato, sarei rimasta un paio di giorni in più. E gli altri, con la bocca piena di patatine alla paprika o di salami affumicati, rispondono con l’identica bugiarda spudoratezza: eh sì, infatti. Altri due giorni. Altri due giorni funziona sempre: è credibile, è innocuo, e soprattutto non è vero.
Stai già scalpitando perché non hanno ancora iniziato l’imbarco passeggeri, ti stai innervosendo perché le hostess cincischiano e sorridono invece di prendere il posto del pilota e riportarti a casa. Hai spostato il cervello in modalità aereo, cioè in modalità: Roma. Un minuto fa eri una turista estasiata da uno show del London Theatre, adesso sei una feroce romana bisognosa di puntarelle con la pasta di acciughe. Si è liberato qualcosa dentro, qualcosa che non so se mi piace, ma rido alle battute orrende di un italiano seduto tre file più in là. Un minuto fa mi avrebbero fatto inorridire, domani mi faranno inorridire, ma adesso?
Le hostess parlano in inglese, giustamente, la signora italiana con i capelli bianchi si innervosisce e dice: signorina, io sto tornando a casa mia e perciò parlo la mia lingua. La sento lamentarsi al telefono in un inglese british, quindi è una questione di principio: il principio del ritorno.
Il principio del ritorno non lo puoi recintare, non lo puoi fermare, cambia la voce (anche il volume della voce) e cambia la faccia: cambia perfino il modo di trascinare il trolley. Il trolley del ritorno è sempre più pesante, più gonfio, più sbatacchiato, ma anche più arrogante, non si preoccupa di salire sui piedi degli altri, non chiede scusa, e fa molto rumore scendendo le scale. Stiamo tornando, facciamo i gradassi. Stiamo tornando, tra poco litigherò col tassista, che bello. Stiamo tornando, stasera pizza, stasera casa, stasera chiudo la porta a chiave, stasera mando messaggi a tutti e dico che sono tornata, purtroppo, evviva.