Il Figlio
Tornare a casa solo dopo che una figlia parte: un mix tra pace e tormento
Il merlo sopra il ramo, il passaporto in mano, la vita che cambia in un istante. Nel rincasare dopo averla accompagnata in aeroporto mi dico: non servi più a molto, ciccia
Sono tornata a casa mentre mia figlia partiva per Amsterdam con le sue amiche. Anzi, io sono tornata a casa perché mia figlia era già partita per Amsterdam con le sue amiche, ho calcolato perfettamente l’incrocio del mio treno con il suo volo, sono partita quando ho avuto la certezza che fosse partita anche lei e le ho risparmiato lo spettacolo pietoso della madre nervosissima che ogni tre secondi le dice: perderai l’aereo, non è possibile così, cos’hai messo in valigia, non è possibile così, hai il documento, non è possibile così, hai i soldi, non è possibile così, dove sono le tue amiche, non è possibile così.
Devo precisare che non l’ho fatto per lei: l’ho fatto per me, per non farmi esplodere il cervello dall’ansia, e l’ho fatto ancora per me, per non salutarci in quel modo terrificante e litigioso e lasciarle il ricordo di una donna scarmigliata che la insegue per casa brandendo un passaporto (non importa chi le ha trovato il microscopico appartamento su Airbnb, non importa chi ha monitorato tutte le offerte dei voli e li ha prenotati, niente importa davanti all’insostenibile pesantezza di una madre che strabuzza gli occhi e corre da una stanza all’altra con calzini in mano). Le ho mandato solo molti messaggi promemoria di cose da non dimenticare (la tachipirina), ma sono certa di non averla disturbata perché non mi hai mai risposto né visualizzata. E grazie alla pace provocata dalla mia assenza, mia figlia è uscita con calma alle sei del mattino, dopo essersi preparata il caffè nella casa addormentata, ha raggiunto l’aeroporto in treno, ha passato i controlli, è andata al gate giusto, è salita sull’aereo ed è arrivata placidamente nella casetta olandese sul canale per festeggiare una cosa molto importante, la maggiore età. Che in realtà ancora non ha raggiunto (per pochi giorni) e quindi non potrà entrare nei coffee shop, ma questo non c’era bisogno di precisarglielo, lo scoprirà da sola, non sono certo il tipo di madre che insegue la figlia con raccomandazioni, informazioni e ansiosità varie. Adesso la pace è anche la mia, che però mi rigiro nella testa una cosa: non servi più a molto, ciccia. Neanche a ricordarle il passaporto (o forse mi ha visualizzato in quel suo modo subdolo senza doppia spunta blu).
Mi ricordo una volta, un’estate di non tanti anni fa, cioè una vita fa: mia figlia era a Londra in una specie di college e mi telefonava tutti i pomeriggi per dirmi quanto le mancavo. E io ridevo e dicevo ma amore ti divertirai un sacco, mentre lei diceva: no mi fa schifo voglio tornare a casa mi manchi, mi mancate tutti, voglio stare con voi, mi stanno antipatici tutti. E io la incoraggiavo, le dicevo: ma è normale, ma vedrai. Ma vedrai un corno: è stata una vacanza studio orribile, inutile, da strappacuore, con una tizia sorvegliante che entrava nella sua stanza la mattina gridando MOOOORNING, e mia figlia che desiderava solo lanciarle una scarpa in faccia e scappare. Quando è successo, provo a pensare: forse cinque anni fa.
Cinque anni fa mi tormentava la sua nostalgia di casa, adesso mi tormenta la sua non nostalgia di casa. E allora mi sono guardata allo specchio del bagno e mi sono detta: ma tu che c’entri, cos’è questa mania di metterti al centro di una vita che non è la tua? Non riguarda te. Non sei tu. E mi sono tranquillizzata. Poi ho ricevuto un messaggio da lei: la foto di un albero all’imbrunire con un merlo sopra un ramo. Ho risposto: quel merlo ti guarda. Sì, ha risposto lei, come te mamma.