Ho cercato la ragazza sul ponte, ma non c'era più. C'era l'altra
Se vedi ancora quella foto in cui sorridevi e non guardavi. “Eri più bella prima”
La prima volta che sono stata sul ponte di Brooklyn avevo vent’anni, mi ero guadagnata il viaggio a New York lavorando in un ristorante della mia città, era febbraio e c’era la neve: ero così felice che mi scoppiava il cuore. In cucina ho ancora quella foto in cui guardo verso la statua della libertà con in testa un berretto rosso, e ogni volta, da un po’ di anni, mio figlio dice che certo ero più bella prima. Certo, eri più bella prima. Sì amore, certo ero più bella prima, tu che hai questo grande spirito di osservazione ora sparecchia accuratamente e lava bene i piatti, voglio che sia tutto più bello di prima, capisci cosa intendo. Intanto io mi siedo, fumo, guardo la foto.
La seconda volta sono andata sul ponte con i miei figli molto piccoli, era novembre e avevo paura che una raffica di vento li portasse via, ma ho ancora quella foto in cui Giulio sta seduto su una panchina con la giacca a vento blu e disegna. Gliela ho fatta io, l’ho stampata su un foglio di alluminio e da dieci anni sta appesa lì: un bambino piccolo con una matita in mano, e il legno e il ferro e i grattacieli dietro. Quel bambino non c’è più, tranne che sulla foto sul ponte, al suo posto un tizio spesso incazzato e molto preoccupato delle sue ascelle ancora quasi senza peli, molto innervosito da sua madre che gli dice: dammi un bacio (Mamma lo sai che non mi piacciono i baci. Lo so ma non mi interessa).
Certo eri più bello prima, dovrei dirgli se non lo trovassi ogni giorno più bello. Dovrei dirglielo lo stesso, invece gli dico sempre e solo: dammi un bacio.
Poi non so perché le altre poche volte a New York non sono mai tornata sul ponte, fino a ieri. Ieri con le nuvole e con un poliziotto che mi ha detto che il ponte era chiuso ai pedoni, e io gli dicevo ma non è possibile, ma perché, e lui diceva per motivi di sicurezza, poi è scoppiato a ridere, felice del suo scherzo, e anche il suo collega rideva molto: ho pensato che certo io ero anche più intelligente, prima.
Sono salita sul ponte, dietro una signora velocissima tutta leopardata dal cappello alle scarpe da ginnastica, e ho cercato la me stessa con il berretto rosso. Forse è qui, mi dicevo, forse invece stava appoggiata lì a farsi fare la foto di profilo, mi ricordo che aveva una fame pazzesca e uno zaino con dentro i panini, non mi ricordo altro. Non l’ho trovata in nessun angolo del ponte, non c’era più, nemmeno alla fine quando si scende a Brooklyn e tutti dicono: com’è cambiata. Non l’ho trovata da nessuna parte, eppure so quanto è stato importante quel viaggio. Ho trovato invece la donna che inseguiva i suoi figli sul ponte infilando berretti e sciarpe, per paura del vento, mi sono ricordata di avere avuto il desiderio intenso di legarli a me con una corda per non perderli (li ho persi, infatti, a Ellis Island, una delle molte volte in cui ho perso la voce strepitando e urlando). Ho trovato quella donna che diceva: non c’è un momento di tregua, lasciatemi guardare, lasciatemi sedere su quella panchina, state fermi, disegnate il ponte. E Giulio miracolosamente ha disegnato il ponte. Ho ritrovato la panchina, mi ci sono seduta, ho chiesto alla mia amica di farmi una foto, l’ho mandata a Giulio e gli ho chiesto se si ricordava di quel giorno di tanti anni fa in cui se ne stava seduto lì. Ha risposto dopo otto ore con un punto interrogativo. Ha detto: mamma che cos’hai? Ma non ho niente, sono felice, sto per mangiare un hot dog sotto questo ponte, la tregua è arrivata, però almeno adesso mandami un bacio.