Stelle solitarie

Ester Viola

Per fortuna c’è Vera. Si riesce mai a prendersi cura davvero di qualcuno? Il romanzo di Cristina Marconi

Cosa vuol dire prendersi cura di qualcuno? Ci si riesce mai veramente?

 

Se è vero che un libro è il modo di prendersi in carico una domanda impossibile (trovi il lettore quale), la domanda di Stelle Solitarie è già lì, a tradimento, infilata dalla stessa autrice in un capitolo, secca, nuda. 

 

A riempire il bel romanzo di Cristina Marconi sono due ragazze in viaggio. L’autrice e Vera, l’amica di sempre, un sempre che comincia a vent’anni. Il loro aereo vola a Houston. Perché a Houston sanno fare tutto. Basta dire che problema hai, loro ne risolvono molti. Cancro, è il primo problema. Cancro quando si è davvero giovani. Questo è l’altro problema. 

 
C’è un momento preciso dei quarant'anni, il momento in cui speri di essere lasciato in pace. Cristina Marconi taglia perfetti i bordi, di quel quarto d’ora dell’esistenza, li rende riconoscibili, specie nella loro ingenuità. Innocenza adulta, si potrebbe chiamare: “I giochi della vita ci sembravano iniziati da poco, pareva quasi di avere tempo per ambientarci ancora meglio.”

 
Si scopre in seguito che la maturità ha nemici migliori, i mali del corpo, ci si guarda indietro e ci si chiede: “ma ero io, davvero, ad affliggermi per gli amori, e per molte fesserie?”. Sì, eravamo noi. Non pare possibile. 

 
E quindi dal cancro si deve guarire, e impedire alla vita la sopraffazione. Impedirle soprattutto di riuscire nell’impresa singolare contro i suoi abitanti: intristirci.

Quando il cancro non lo potevi curare in nessun modo, decenni fa, quando capitava anche più raramente, perfino le parole si rifiutavano di avvicinarsi. Non si poteva neanche nominare. Scaramanzia della perifrasi. Oppure occhi a terra e silenzio dopo un “non sta bene”. Il male. Un brutto male.  

 

Il cancro lo scopre Vera, e poi il marito della protagonista, e così il male s’aggira per le pagine, neanche troppo minaccioso a mostrarci cosa riesce a fare alle persone, gli effetti: deviazioni dei corsi di famiglie, assestamenti di caratteri, spiegazioni, resistenze. 


“Ognuno fa quello che può contro i tumori” scrive Cristina Marconi, e cita Susan Sontag. “In Malattia come metafora fa un lungo paragone tra l’aura che circonda la romantica tubercolosi, malanno degli animi sensibili, e quella del cancro, malattia della passione repressa, «un perdere la speranza», secondo Wilhelm Reich, lo psichiatra le cui teorie sono state riprese sotto varie forme e mai del tutto abbandonate dai venditori di fumo che fanno sentire i malati colpevoli di essersi danneggiati da soli, attraverso un brutto carattere o brutte scelte. Come se non fosse il corpo bensí la stessa personalità a uccidere.


Per fortuna c’è Vera. Che bel carattere che ha Vera. Come quando la scrittrice, la voce narrante (Marconi riesce in questo capolavoro di essenzialità di fare un io-tutti, ad accompagnare questa storia) le racconta della malattia del marito, e dell’ammutinamento degli amici, insopportabili con la loro preoccupazione o con le loro assenze.
Un’altra amica confessò: «Posso non chiamarti? Lo senti lo stesso che ti voglio bene?». 


Altri sparirono e basta, con poche cerimonie. Per me qualunque cosa era meglio della retorica pietistico-fatalista, fatta di frasi alla «cosí è la vita, dobbiamo essere forti». Vera rideva quando le raccontavo di queste reazioni. Diceva, e mi avvertiva: – I malati sono un catalizzatore di depressioni altrui, una chiamata alle armi per chi è triste di suo! Difenditi!


Si difendono, le due amiche geniali. Come le molecole di Bergson. Se ogni cellula di ogni essere umano porta scritto un solo imperativo: sopravvivi, allora bisogna sperare, starci accanto, dirci che la bellezza, o qualsiasi cosa funzioni, ci salverà.
 

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