Il Figlio
Quando ti stufi di quelli intorno a te che ti dicono “come essere una donna”
"I miei tre papà" di Jessa Crispin è al tempo stesso un saggio, un romanzo di formazione e un diario in pubblico del ruolo della donna o meglio del ruolo dato alla donna nella società contemporanea vista attraverso la propria vita
Partire dai padri per tornare all’inizio di sé, al punto zero di un dolore e di un malessere totalmente inalienabile e la cui liberazione appare più un’utopia che una forma possibile di cura. Jessa Crispin, scrittrice, critica culturale e animatrice del blog Bookslut, ha scritto con I miei tre papà (tradotto brillantemente da Giuliana Lupi per Sur) un’autobiografia possibile e anche potenziale. I miei tre papà è infatti al tempo stesso un saggio, un romanzo di formazione e un diario in pubblico del ruolo della donna o meglio del ruolo dato alla donna nella società contemporanea vista attraverso la propria vita. Un’inchiesta che percorre le strade del Midwest, in quella parte rurale degli Stati Uniti in cui Jessa Crispin nasce e cresce, luogo simbolico di un mondo arcaico e reazionario dentro al quale covano e prendono forma le più comuni pratiche patriarcali. Il movimento di Crispin è doppio: dentro alla propria consapevolezza e alla propria storia personale e dentro a una società che mostra con evidenza i limiti e le criticità di un fallimento sociale ed economico evidente: “Mentre aspettavo il discorso d’apertura di Sarah Palin, una donna si è seduta a qualche sedia da me, alla mia destra. Assomigliava a mia zia Barb, con i pantaloni Capri e il taglio di capelli pratico di una madre che non ha molto tempo per sé in bagno. Mi ha raccontato di essere arrivata in auto dall’Iowa, dove fa studiare in casa i propri figli, perché era stufa della femministe che ti dicono ‘come essere una donna’. Non le ho confessato di essermene andata dal Kansas perché ero stufa di tutti quelli intorno a me che mi dicono la stessa cosa”.
Quello di Crispin è un alternare continuo e perfettamente coeso tra analisi e racconto che non fa sconti e che non cerca alcuna pace assolutoria. Il sistema non solo è rotto, ma non ha mai funzionato per tutti (e tutte) per davvero. Una durezza quindi necessaria perché figlia di un’oppressione che non solo è evidente, ma che diviene palese attraverso un attento e accurato ricorso continuo alla memoria. I fatti vanno riletti sotto una lente sempre nuova, perché evidenziano in maniera inequivocabile quel recinto assurdo e stretto dentro al quale le donne vengono rinchiuse. Prendere consapevolezza di sé è un tragitto complesso che passa da una rilettura di sé in una tensione che dal passato porta al presente. Crispin non fa appello a una comunità ristretta, ma alla società nel suo insieme, alla necessità di una relazione ampia, libera e inclusiva quale elemento necessario per la vita in quanto tale. Ogni altra strada non può infatti che riproporre vecchi schemi più o meno ghettizzanti o ancor più tragicamente il ripiegarsi di una società sempre più povera e sempre più miserabile. I padri rappresentano allo stesso tempo l’incastro più intimo ed esterno, agenti e delatori di un controllo sociale che nasce dal ricatto (anche affettivo) che esplode spesso in una violenza familiare continua. Un furore che quando non assume la forma di una tragedia sanguinaria diviene una costante quotidiana. Un percolare continuo e assillante che annichilisce e deprime fino a rendere totalmente ancillare e subordinato il ruolo della donna. Una moglie e una compagna che a sua volta diviene un esempio primario di comportamento per le sue stesse figlie, generando una malintesa eredità figliale che è invece il frutto avvelenato (una mela si potrebbe pure dire) di un patriarcato tanto feroce quanto cogente. Crispin nel suo viaggio sorregge il proprio sguardo e la propria memoria con molti riferimenti culturali. Alcuni li contesta, altri li accoglie e li riposiziona, compiendo e un movimento critico necessario perché vitale. Jessa Crispin è sempre mossa da un pensiero che è un corpo pulsante. Un movimento del cuore che non teme di mostrare le proprie cicatrici, ma nemmeno la propria speranza e libertà d’amore.