il figlio
Folle di genitori già ampiamente biasimate e la mia maturità
Non è la mia adolescenza, non è il mio esame, va tutto bene. Ma quell’altra, perché?
Pare che ci siano, in questi giorni, folle già ampiamente biasimate di genitori con i fiori in mano ai cancelli delle scuole superiori, ma pure non ai cancelli e direttamente in aula a monitorare l’esame di maturità dei figli. Si commuovono, si lamentano se il voto non è abbastanza alto e se le domande sono troppo difficili, portano lo spumante con cui innaffiare ragazzi e ragazze, provvedono con i telefoni e le videocamere alla copertura social dell’evento. Salgono sul palco, dicono gli psicologi, si prendono la scena, è dannoso, non è dannoso, non lo so. Non vorrei che il mio biasimo fosse scambiato per invidia irosa, quindi non li biasimerò.
Mia figlia era il primo orale della mattina, dopo una serata passata in casa sotto forma non di figlia ma di proiettile sparato in tutte le stanze e in tutti gli angoli, un proiettile che ripeteva: non so niente. Alle due di notte questo proiettile annunciava che aveva dimenticato anche quel pochissimo che aveva imparato in cinque anni di scuola. Non mi sono lasciata impressionare. Era il primo orale della mattina, quindi presumibilmente alle otto, quindi mi aspettavo un messaggio alle nove, ma anche alle nove e mezza in fondo perché no, e mi aspettavo un messaggio solo perché l’avevo esplicitamente chiesto, avevo proprio detto: solo un messaggio, che ti costa. Evidentemente le costava molto, perché non ho saputo niente fino a mezzogiorno e mezza, quando abbiamo ricevuto nel gruppo famiglia di whatsapp un lungo messaggio, davvero lunghissimo ed esaustivo, che ci ha tolto ogni curiosità. Il messaggio era: scusate raga, tutto bene. Io ho tenuto il telefono libero tutta la mattina, non ho accettato nessuna chiamata per il terrore che lei trovasse occupato e si scocciasse (io mi scoccio molto se trovo occupato), ho controllato ossessivamente il suo ultimo accesso che era sempre: 7:45.
Devo aggiungere che la sera prima, durante le ore da proiettile, avevo finto nonchalance e chiesto il permesso di gironzolare con il cane non davanti a scuola con un mazzo di fiori, non avrei mai osato nemmeno pensarlo, ma nei dintorni della scuola, più precisamente dalle parti di un bar con i tavolini a centocinquanta metri dalla scuola. Fingevo fosse una questione pratica: così, le avevo detto, quando esci per fumare una sigaretta, prima di assistere agli esami dei tuoi amici, magari vieni un attimo al bar e mi dici com’è andata. Così, ho aggiunto, non devi nemmeno preoccuparti di mandare il messaggio. Il proiettile mi ha guardato storto, o magari era compassione, ha detto solo: preferirei di no, e ha continuato a proiettilare contro i muri e al telefono a velocità 2. E io mi sono detta più volte, come quelle psicologhe un po’ brutali che però hanno ragione: ma che c’entri tu. Quindi poi mi sono anche accontentata del messaggio. Ho telefonato a mia madre e ho inventato particolari che assolutamente non conoscevo sullo svolgimento dell’orale, per fare contenta almeno lei. Verso le tre del pomeriggio, quindi a sei ore dalla fine dell’adolescenza, mia figlia mi ha telefonato.
Non ha raccontato niente, tranne il voto, ma ha detto che la madre di Ginevra, dopo, ha offerto l’aperitivo a tutti, perché era al bar ad aspettare. Ha detto che è stato molto divertente. Fino a quel momento, in fondo, era andata bene. Avevo accettato di stare in disparte. Non è il mio palcoscenico, non è la mia adolescenza. Ma, con tutto il mio biasimo: la madre di Ginevra, esattamente, che vuole?